Con le nuove tecnologie mediatiche si sa da dove si parte, ma non è facile prevedere dove si può arrivare. Il caso della fotografia digitale integrata con i terminali telefonici suggerisce parecchi motivi di riflessione in merito al ruolo che gioca nell’ambito della soggettività contemporanea.
di Giordano Ventura
Tutti, o quasi, posseggono un portatile. Molti però non ne fanno un uso esclusivamente telefonico, per cui il portatile è stato inizialmente progettato. Per alcuni, anzi, quell’uso non è neppure predominante, perché, per quanto lo tengano sempre in mano o in tasca, lo usano per scambiarsi messaggi, per leggere email, per partecipare ai social network. E soprattutto per registrare suoni e immagini.
In poche parole, il telefono è diventato essenzialmente – essenzialmente, proprio perché un’applicazione prima marginale sta poco a poco prendendo il sopravvento, lasciando pensare che in quell’applicazione si muova qualcosa di essenziale – quella che una volta si chiamava macchina fotografica. E non a caso su questa funzione al tempo stesso nuova e vecchia si basano, per esempio, le campagne pubblicitarie delle marche più note, dalla Samsung alla Apple, per citarne solo alcune.
Ma non basta. Il telefono è diventato una macchina fotografica praticamente professionale, con la possibilità di correggere messa a fuoco, luminosità, prospettive, inquadrature. Ancora una volta, la pubblicità rappresenta un eloquente indicatore degli orientamenti valoriali che i nuovi prodotti telefonici intendono perseguire. In effetti, con la possibilità di intervenire successivamente per correggere eventuali errori, si tende a suggerire che la fotografia non sia più un modo per registrare la realtà, ma per manipolarla.
Il paradosso di una tecnologia che nasce in un modo per rinascere in un altro – paradosso relativo, che alcuni studiosi considerano non solo ricorrente, ma addirittura dominante sia nell’ambito della natura (exattamento), sia in quello della cultura (rimediazione) – si articola ulteriormente quando il rapporto di priorità s’inverte e si prevede che in breve sarà la macchina fotografica, con tutte le sue più elevate prestazioni tecnologiche, inclusa la possibilità di cambiare lenti e obiettivi, a incorporare il telefono portatile.
Come dire – a parte le logiche del mercato che deve stagionalmente rinnovare la propria offerta anche soltanto invertendo l’ordine dei fattori – che sulla funzione di comunicazione, sinora assolutamente prevalente, tende a prevalere quella funzione identitaria che costituisce una delle motivazioni originarie del successo della fotografia.
Anche se, nella sua connessione telefonica, il fotografare finisce per equivalere a comunicare. Ma qui nasce il problema a cui vogliamo accennare in questa sede. A comunicare chi? A comunicare cosa?
A questi due interrogativi hanno cercato di dare una risposta – tanto articolata quanto numerose e diversificate sono le situazione in cui i dispositivi di fotografia digitale stanno prendendo piede – una ventina di studiosi e operatori, le considerazioni dei quali sono state raccolte da Vittorio Pavoncello in un volume collettaneo, pubblicato recentemente da Mimesis e intitolato Cheese! Un mondo di selfie.
Giustamente Pavoncello, saggista, artista e regista, nella sua introduzione inquadra il selfie in quella sempre più tormentosa e frenetica ricerca identitaria che ha proiettato “l’ansia di non esserci più” in un apparente vortice narcisistico, che sembra confermare le apocalittiche previsioni divulgate una quarantina di anni fa dal sociologo americano Christopher Lasch.
Per altro, nonostante che questa deriva relazionale connessa al narcisismo del “guardarsi” e farsi guardare” venga declinata in molti degli interventi successivi, lo stesso Pavoncello rileva come il selfie, nella sua estrema configurazione “astata”, tenda in realtà a contemperare la “condanna narcisistica”. Per un duplice motivo.
Perché, da un lato, più l’asta è lunga, più nel selfie rientra ciò che selfie non è: i compagni dell’avventura fotografica, gli altri selfisti, l’ambiente circostante e via dicendo.
Perché, dall’altro lato, la dimensione di rete del selfie, il suo “offrirsi agli altri come collettività”, ne riscatta la deriva ferale che è propria di ogni fotografia e che nel selfie sembrava trovare addirittura un paradossale “incassamento”.
Se dunque le tecnologie “si muovono”, nel senso di una incessante ridefinizione delle loro capacità e finalità operative, in questo movimento tecnologico anche la loro dimensione antropologica, il modo in cui variamente dialettizzano l’homo sapiens con l’homo faber, trova imprevedibili torsioni fenomenologiche. Giungendo talvolta a rimuovere, almeno potenzialmente, le stesse chiusure ideologiche delle premesse di partenza.