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    Se questa è una macchina

    Perché c’è più merito a usare bene qualcosa che si può anche usare male.

    di Gian Piero Jacobelli

    Dopo quello assegnato lo scorso anno, con qualche perplessità, al presidente americano Barack Obama, si torna giustamente a discutere del Premio Nobel per la Pace, di cui ci sarebbe tanto bisogno: della pace, s’intende; forse meno del Premio Nobel. Da queste discussioni, nel cui ambito non mancano purtroppo le più sconcertanti strumentalizzazioni politiche – provate a digitare su Google «Premio Nobel per la Pace 2010» e vi sembrerà di non essere neppure usciti di casa -, è emersa quest’anno una ipotesi che, al di là delle adesioni più o meno convinte, si presta a varie considerazioni di indubbio rilievo filosofico ed etico. Si tratta della candidatura di Internet, lanciata dalla edizione italiana di «Wired» e ribadita dalla nostra rivista con la connessa candidatura di Nicholas Negroponte, sia perché il Nobel va assegnato a un soggetto, istituzionale o personale, sia perché Negroponte si è reso interprete di orientamenti e di progetti tanto significativi quanto indubbiamente «pacifici». Tra cui una autorevole difesa della libertà in Rete, affidata non a leggi o regole, ma a una sorta di autoregolamentazione e di self control. Nelle pagine di questo fascicolo i lettori troveranno numerosi autorevoli e stimolanti interventi sull’argomento, che variamente si interrogano sulla natura della Rete e dei suoi protagonisti. Vorremmo prendere spunto da questi interventi, molti dei quali non mancano di accennarne, per riproporre alcune riflessioni sul classico problema della neutralità della tecnologia. Che non riguarda – o quanto meno si pone a un livello problematico superiore – la cosiddetta «neutralità della Rete», locuzione specialistica concernente la libertà di accesso alla banda larga da parte di media diversi come Internet, la televisione o il telefono. La questione della neutralità della tecnologia presenta una escursione concettuale assai più rilevante. Da chi ritiene che la tecnologia abbia preso il controllo della civiltà occidentale, instaurando una sorta di imperialismo «materialistico», a chi, al contrario, ritiene che la tecnologia vada interpretata in maniera meramente strumentale, riservando le valutazioni di carattere morale agli usi che ciascuno può e vuole farne. Da Umberto Galimberti ed Emanuele Severino, che denunciano il nihilismo tecnologico, a Fritjof Capra e alle sue fantasie scientifico-tecnologiche del genere New Age, quel tanto di vero che possiamo riconoscere in tutte queste posizione, anche se divergenti e talvolta paradossali, induce a pensare che il problema risieda altrove, in particolare nel concetto che ognuno di noi, esperto o semplice utente, ha maturato della tecnologia.

    Per prima cosa, a nostro avviso, si dovrebbe distinguere tra tecnica e tecnologia.

    Se nella tecnica individuiamo la razionale concretezza del fare, che trova espressione in ogni impegno operativo nel cui ambito i mezzi devono sistematicamente venire orientati, come insegnava Aristotele, a un fine misurato sulla difficile equazione tra il qui e ora e il là e allora; se la tecnica mantiene chiara la mediazione tra mezzi e fini, la tecnologia proietta immediatamente i primi nei secondi, in una imposizione autoreferenziale, che comporta un sostanziale scadimento dialettico.

    Mutuando proprio da Umberto Galimberti alcuni spunti critici sul «primato dei mezzi rispetto alle finalità che gli uomini si propongono», potremmo individuare nella tecnologia il risultato di una razionalità pretenziosa, nel cui ambito le intenzionalità soggettive acquisiscono una presunta oggettività.

    Per altro, se la tecnologia, in questa accezione, presenta una deriva innegabilmente ideologica, proprio per quella «logia» che conferisce alla «tecnica» una razionalità prevaricante rispetto alle altre funzioni della ragione, neppure la tecnica va considerata neutrale. La tecnica non è neutrale, ma strumentale e lo strumento non può essere considerato neutrale, dal momento che deriva dalla tematizzazione di un fine al quale viene predisposto un mezzo. Anche nelle tecniche della comunicazione, il mezzo può venire considerato un messaggio, secondo la intuizione di Marshall McLuhan, proprio perché non è neutrale, ma in un modo o nell’altro condiziona la nostra percezione del mondo e si proietta nelle nostre strategie di comportamento, in quelle delle «pratiche» che, in altre circostanze e con altri strumenti, forse non avremmo adottato.

    La tecnologia, dunque, non è neutrale perché non vuole esserlo, ma pretende di contare più di quanto conta, anche oltre i suoi ambiti strumentali. La tecnica è neutrale, perché viene concepita e implementata in funzione di una trasformazione che si intende provocare nel mondo circostante. Nulla da obiettare, ovviamente, anzi non si discuterebbe del Nobel a Internet e/o a Negroponte se non fossimo consapevoli che dietro all’uno e/o all’altro si possono percepire scelte di valore, scelte di orientamento, scelte di intervento: proprio quelle scelte su cui si misura il nostro apprezzamento o il nostro dissenso.

    Un esempio della portata storica e politica di queste considerazioni possiamo rinvenirlo in un libro recente e non poco allarmante, che si intitola Perché l’Olocausto non fu fermato e che è firmato dall’autorevole storico americano Theodore S. Hamerow (Feltrinelli, 2010). Quella di Hamerow costituisce una riflessione sull’antisemitismo con riferimento all’orrore nazista, ma non si esaurisce nell’analisi dei motivi per cui, di tempo in tempo, nel corso dei secoli, le comunità ebraiche sono diventate bersaglio di persecuzioni. Già la ricerca dei «motivi» contestualizza la tesi ricorrente del «capro espiatorio» che, se da un lato rende tragico il destino dell’ebraismo, dall’altro sembrerebbe sottrarlo a specifiche responsabilità per proiettarlo nell’orizzonte fatale del mito e del rito, per quanto intollerabile e crudele.

    Secondo Hamerow, anche nella persecuzione nazista si può individuare un momento in cui la situazione è cambiata e, mentre prima si trattava di avvertimenti e minacce, dopo si è passati alle atroci vie di fatto: «Non ci sono prove di piani specifici per l’esecuzione di quelle minacce prima dello scoppio delle ostilità. Ciò che trasformò il violento pregiudizio antisemita in una politica genocida governativa fu la guerra, e in particolare il graduale mutamento delle fortune militari del Terzo Reich. Il genocidio cominciò con l’invasione dell’Unione Sovietica nel giugno del 1941, quando le unità militari tedesche, talvolta assistite da simpatizzanti e collaborazionisti dei territori occupati dal Terzo Reich, avviarono la strage di ebrei, sparando, bruciando e gassando». Un momento abbastanza preciso che inaugura un periodo di alcuni anni in cui si sapeva, se non tutto, qualcosa, ma nessuno pensò di intervenire per cercare quanto meno di limitare i danni di quell’immane sterminio.

    In Germania, sostiene Hamerow, molti erano al corrente, ma preferirono «guardare dall’altra parte» per non incorrere nelle aggressioni della polizia segreta. Nei territori occupati dalla Wehrmacht al timore delle reazioni delle autorità tedesche si aggiungeva probabilmente un «inveterato antisemitismo », ma il problema si pone diversamente, con assai maggiore problematicità, per i paesi che avevano deciso di scendere in guerra e che preferirono non fungere da casse di risonanza delle notizie sul tragico massacro che i nazisti stavano compiendo: «La rivelazione che il Terzo Reich aveva avviato un programma di sterminio contro gli ebrei europei non era più una novità per le democrazie occidentali. Benché fossero state inizialmente riluttanti o poco inclini a credere ai resoconti dello sterminio che ricevevano da varie fonti, alla fine del 1942 le prove erano ormai diventate così schiaccianti e incontrovertibili che non potevano più essere messe in discussione».

    Ma perché questo atteggiamento di rimozione se non di evidente renitenza a farsi carico delle responsabilità che un così violento, insopportabile attacco all’umanità comportava? La risposta di Hamerow risulta agghiacciante: perché cedere alle sollecitazioni che provenivano da più parti, in primis ovviamente dalla comunità ebraica, «avrebbe significato dirottare le già scarse risorse nazionali dalle operazioni militari verso attività umanitarie». Insomma, le ragioni dei «signori della guerra» e quelli degli industriali che stavano nelle retrovie prevalsero sugli interessi dell’umanità.

    Il pregiudizio di alcuni sommato all’interesse degli altri finì, quindi, per indurre una politica dello struzzo o quanto meno la convinzione che fosse meglio, e anche più rapido e meno rischioso, incrementare e accelerare lo sforzo bellico (un ragionamento non troppo diverso da quello che provocò la decisione di ricorrere alla bomba atomica).

    In questa «arte politica della compassione attentamente calibrata» si sente l’eco della inquietante denuncia che una decina di anni fa un giornalista americano, Edwin Black, rivolse alla IBM per avere «partecipato consapevolmente all’Olocausto e consentito il funzionamento della macchina bellica nazista che uccise milioni di persone in tutta l’Europa» (L’IBM e l’Olocausto, Rizzoli, 2001, p. 15): «Quando, nel tentativo di risolvere definitivamente la questione ebraica, si pensò di trasportare gli ebrei dai ghetti ai campi di sterminio attraverso le linee ferroviarie, con orari tanto precisi che le vittime scendevano dai carri merci ed entravano nelle camere a gas già pronte per accoglierli, il coordinamento delle operazioni fu un compito tanto complesso da richiedere, ancora una volta, l’uso dei computer. Ma nel 1933 i computer non esistevano ancora. Esisteva tuttavia un’altra invenzione: la scheda perforata dell’IBM e il sistema per la selezione delle schede, una sorta di precursore del computer. Soprattutto attraverso la filiale tedesca, l’IBM trasformò il programma hitleriano di distruzione ebraica in una missione tecnologica che la società portò a termine con agghiacciante successo».

    La valutazione è argomentata in oltre 500 pagine di incalzante documentazione.

    Black non dice – anzi, dice il contrario – che senza l’IBM l’Olocausto non avrebbe avuto luogo. Ciò che gli sta a cuore è sottolineare «il ruolo cruciale dell’automazione e della tecnologia». Anche in questo caso, sulla decisione di proseguire l’attività della controllata della IBM in Germania e nei paesi occupati dai nazisti aleggia la cinica personalità di una capitano d’industria come Thomas J. Watson, secondo cui «non è nostro compito giudicare le ragioni per cui una società americana debba o voglia aiutare un governo straniero». Certo, nessuno può pensare a una scheda perforata come a una pistola fumante. Una scheda perforata serve a contare qualcosa, a tenerla in memoria, a classificarla e gestirla, ma forse proprio questo è il problema: che quando si trasformano gli uomini in cose e le cose in numeri, l’esigenza di «prenderli in carico» fa venire meno quella di «farsene carico». Concludiamo esprimendo la convinzione che, se né la tecnologia, per definizione, né la tecnica, per intenzione, possono davvero dirsi neutrali, tanto più ha senso l’idea di considerare le azioni di chi queste pratiche ha contribuito a finalizzare diversamente, oltre le proprie stesse motivazioni e funzionalità originarie, per unire e non per dividere.

    A conferma che tutto quanto facciamo si giova di quanto è già stato fatto, in una sorta di incessante bricolage, in cui tutto può cambiare meritoriamente di segno, purché si sappia cosa farne, ma anche per chi e perché farlo.

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