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    Questo non è un saggio e questo non è un romanzo

    La scomparsa di Umberto Eco sta suscitando così tante testimonianze e riflessioni da farci ritenere che il grande studioso e scrittore sia, a maggior ragione, ancora con noi.

    di Gian Piero Jacobelli

    Umberto Eco ci ha lasciato, e però non ci ha veramente lasciato, se consideriamo quanto ci ha lasciato. Con la stessa dolente, ma “perplessa” sorpresa, il 23 febbraio sul “Corriere della Sera”, Javier Marìas sottolineava come per molti dei suoi lettori, ma anche per molti dei suoi critici, Eco fosse eterno: «Una delle poche persone che non devono morire mai e che, dunque, non possono morire».

    Nel continuare a ricordarlo vivo e vegeto, come opportunamente ha già fatto Romano Prodi in questa stessa sede, mi chiedo in che senso Eco fosse “eterno” e mi rispondo che il nostro studioso saggista scrittore per antonomasia non componeva la sua opera fuori di noi, ma dentro di noi e perciò questa opera ci appartiene non soltanto come una memoria inalienabile, ma come un impegno speculativo e narrativo sempre attuale.

    Questo è, d’altra parte, il senso più profondo della indagine di Eco sul rapporto tra lo scrivere e il leggere, su quella “opera aperta” che è aperta non soltanto perché continua a farsi scrivere e leggere, ma anche perché mantiene sempre aperto il rapporto tra chi scrive e chi legge.

    Proprio Eco ha descritto come, se c’è il lettore, ci sia sempre anche lo scrittore e come i due continuino a dialogare virtualmente, prescindendo dalla loro presenza reale. Per questo motivo, tutta l’opera di Eco concerne lo straordinario fenomeno della mobilità del segno, che si muove in ogni direzione, dalla cultura alta a quella bassa e viceversa, da un genere all’altro, dal moto centrifugo della metafora a quello centripeto della metonimia, dalla sua produzione alla sua fruizione.

    Non a caso è difficile, per non dire inutile, cercare di classificare le opere di Eco, in quanto si tratta sempre dello stesso discorso: il “discorso”, appunto, il trascorrere della parola tra chi parla e chi ascolta, tra chi scrive e chi legge.

    Basta pensare a questo proposito a due opere che, non a caso, nascono entrambe alla fine degli anni Settanta.

    Quel Lector in fabula, un meraviglioso saggio sulla “cooperazione interpretativa nei testi narrativi”, che a mio avviso può venire anche letto come il più suggestivo ed emblematico romanzo sulla interminabile guerra di parole, una vera e propria logomachia, tra lo scrittore, il quale si sforza di inscrivere il lettore nel suo testo, e il lettore, il quale al contrario si sforza di diventare protagonista di quel testo. Restandogli “sempre alle calcagna”, come scrive lo stesso Eco con la consueta manipolazione di codici espressivi.

    E naturalmente quel Il nome della rosa, uno dei romanzi più affascinanti e ammirati del Novecento, che tuttavia può venire anche letto come una risposta saggistica al suo stesso interrogativo drammaturgico: che fine ha fatto la Commedia di Aristotele?

    In effetti, in quel romanzo prende corpo proprio quel gioco delle maschere viziose e volgari a cui Aristotele fa riferimento nelle poche righe introduttive della Poetica, alludendo al processo di reificazione che demistifica i presunti valori dietro cui anche i personaggi di Eco si mimetizzano e si mistificano. In una ulteriore proiezione di quella passione dell’elenco, in cui il mondo si prospetta appunto come una “commedia”, una sequenza di cose determinate, ma non determinanti: quasi che Il nome della rosa fosse, appunto, la perduta Commedia aristotelica.

    Non c’è da sorprendersi: in una delle sue “bustine” ripubblicate nell’ultimo suo libro appena uscito, Pape Satàn Aleppe, ancora una volta Eco rivendica la funzione di quella trasgressione disciplinare che ha caratterizzato tutta la sua opera. In questo caso rimuovendo i confini tra la scienza dei segni e quella dei materiali: «Sono tra coloro che ritengono che anche il sapere scientifico debba prendere la forma di storie e cito sempre ai miei studenti una bella pagina di Peirce in cui per definire il litio si descrive per una ventina di righe che cosa bisogna fare in laboratorio per ottenere del litio. La giudico una pagina molto poetica, non avevo mai visto nascere il litio, ed ecco che un giorno ho assistito a questa lieta vicenda, come se fossi nell’antro di un alchimista – eppure era chimica vera».

    Gian Piero Jacobelli è direttore responsabile di MIT Technology Review Italia.

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