Come a suo tempo la “bomba atomica”, anche la odierna possibilità di modificare il patrimonio genetico dei nostri discendenti assume un rilievo per più versi “apocalittico”.
di Gian Piero Jacobelli
Caro Alessandro, condivido il tuo invito a riflettere sul problema dei cosiddetti “bambini geneticamente modificati”, che la edizione statunitense della nostra rivista ha proposto negli ultimi tempi alla valutazione di esperti sia del mondo scientifico, sia di quello umanistico (vedi “È irresponsabile pensare di modificare i geni dei bambini, almeno per ora”).
Sono convinto, infatti, che si tratti del problema cruciale di questo passaggio di millennio, e in particolare della nostra generazione, che quel passaggio ha vissuto quindici anni fa, mentre la generazione precedente alla nostra, negli anni Cinquanta, si era dedicata alla riflessione sulla “bomba atomica”, l’arma nucleare che, per la prima volta nella storia, sembrava in grado di minacciare la sopravvivenza stessa della umanità.
Anche nel caso della genetica applicata alla possibilità di modificare il patrimonio genetico dei nostri discendenti, la cosiddetta “linea germinale”, nonostante al momento la percezione del rischio venga circoscritta a casi specifici come la sperimentazione sugli embrioni o il trattamento di alcune malattie ereditarie, l’orizzonte di riferimento assume un rilievo per più versi “apocalittico”.
Inoltre, come giustamente rileva Vittorino Andreoli nel suo intervento in proposito (vedi “Scienza ed evoluzione del genoma umano”), pubblicato nei giorni scorsi on-line, rispetto alla energia nucleare, la ingegneria genetica richiede apparati logistici e investimenti finanziari assai meno impegnativi e quindi assai più accessibili anche individualmente.
Andreoli ha ragione anche quando evita di demonizzare la ricerca sul genoma umano in base alla considerazione che la natura è mobile, come insegna la stessa teoria darwiniana della evoluzione. Per altro, proprio considerando la molteplicità dei fattori che contribuiscono alla mobilità, genetica, ma anche ambientale e relazionale, come giustamente precisa lo stesso Andreoli, mi pare che il rischio consista proprio in una riduzione di questa mobilità, o “variazione” come la definiva Darwin.
Da questo punto di vista, non si può non rilevare una intrinseca contraddizione tra la scienza, che si sforza di cogliere la crescente complessità del mondo e della vita, e la tecnologia che invece opera, con sempre maggiore efficacia, per ridurre questa complessità, nella misura in cui il perseguimento dei suoi obiettivi operativi consiste proprio nel precostituire delle cause che provochino effetti predeterminati.
Anche la ingegneria genetica persegue risultati del tipo che Andreoli definisce “riduzionistici”, nel senso di ridurre, per quanto possibile, l’aleatorietà degli interventi programmati. Certo, quando questi interventi si proponessero di rimuovere i danni che anomale configurazioni del patrimonio genetico individuale potrebbero provocare, non si potrebbe non essere d’accordo. Ma meno d’accordo si sarebbe se l’intervento, invece di rimuovere un danno, consistesse nel precostituire una forma più gradita di altre possibili, riducendo appunto la variazione implicita in ogni configurazione genetica.
Nel fascicolo 2/2015 di MIT Technology Review Italia si può leggere un importante articolo sull’autismo di Stephen S. Hall, in cui tra l’altro si cita un gene chiamato BOLA2, la cui portata patogena rivestirebbe però anche un ruolo fondamentale nella cosiddetta “ominazione”, cioè nella emergenza evolutiva dell’uomo così come oggi lo conosciamo. È come se alcuni fattori di “confusione” genetica rappresentassero una sorta di incubatore di quelle variazioni genetiche da cui derivano gli specifici tratti cognitivi dell’Homo Sapiens.
In definitiva, sarebbero da evitare tanto il riduzionismo “oscurantista”, quello che vorrebbe irreggimentare la ricerca in moralistiche e fatalmente anacronistiche preclusioni, quanto il riduzionismo “illuminista”, che al contrario procede per la sua strada non solo per conoscere come la natura si evolva, ma anche per porre un freno o comunque, più o meno consapevolmente, condizionare questa evoluzione.
Da questa considerazione mi pare che emerga un diverso modo di prospettare le relazioni tra le tradizionali “due culture”. Non si tratta più, infatti, di contrapporre, anche se per trovare più o meno artificiose forme di conciliazione, scienza e tecnologia da una parte e humanities, le discipline umanistiche, dall’altra, ma, se mai, di mettere in luce le contrapposizioni fenomenologiche tra la scienza, orientata al sapere, e la tecnologia, orientata al fare. Per comprendere come questa intrinseca contrapposizione possa venire mediata proprio dal pensiero dell’uomo, che è pensiero eminentemente progettuale, vale a dire inteso a mantenere aperto l’orizzonte del progetto in quanto “progetto del progetto”.
Quando le istanze epistemologiche e le istanze etiche sapranno confluire, sarà forse anche possibile comprendere come, se il sapere è “sapere del cambiamento”, anche il fare debba venire inteso come un “fare perché si possa continuare a fare”: proiettato non verso un “dover essere”, ma verso un “poter essere”.