Psicopatologia del lavoro quotidiano

Pubblichiamo la seconda di cinque riflessioni correlate di Andrea Granelli, studioso delle nuove tecnologie della comunicazione e presidente di Kanso, società di consulenza specializzata nei processi innovativi, in cui viene analizzata la funzione essenziale del Web, con specifico riferimento all’attuale situazione di contrazione relazionale dovuta alla epidemia di Coronavirus

di Andrea Granelli

La riduzione della mobilità è stata compensata – perlomeno nei desiderata – da un incremento massiccio delle attività di comunicazione, rese possibile anche dai nuovi sistemi di comunicazione digitale.

Questa diffusione della comunicazione ha però creato molte problematicità lavorative: non solo versioni inutili, anomale o errate di comportamenti aziendali ordinari, che possono, con il tempo e il loro sedimentarsi, diventare piccole apocalissi quotidiane. Ma anche vere e proprie distorsioni percettive sul loro manifestarsi per cui chi è coinvolto in questi “atti mancati” tende a darsi delle spiegazioni rassicuranti, ma fuorvianti su ciò che accade davvero e su quali siano i fattori scatenanti di queste défaillances.

Per tali motivi può essere utile un’analisi psicopatologica, in quanto si concentra sul funzionamento errato o anomalo di comportamenti ordinari per comprendere come la mente li ha assimilati e li vive (per esempio in modo neutro, motivante, ansiogeno, …).

Sia Sigmund Freud (Psicopatologia della vita quotidiana, 1924) sia Donald Norman (La caffettiera del masochista. Psicopatologia degli oggetti quotidiani, 1990) – anche se con premesse teoriche sostanzialmente differenti – hanno riconosciuto nei piccoli comportamenti quotidiani e nelle loro manifestazioni erronee gli indicatori di complessi eventi mentali aventi significato generale per una teoria del funzionamento della mente. Pertanto queste psicopatologie ci possono dare indicazioni sulla buona progettazione dei modelli organizzativi sottesi e del tipo di mindset che tendono a favorire.

Come noto, gli attuali ambienti di lavoro erano già fortemente patologizzati (o per lo meno molte pratiche di lavoro erano significativamente underperforming) e l’inserimento del digitale,, se pur progressivo, non ha certo migliorato la situazione. L’isolamento e soprattutto la “schermizzazione” forzata – perché questo tipo di smart work è caratterizzato, più che dal digitale (che era già molto presente nei luoghi di lavoro), dal “tutto-attraverso-il-video”, dal fatto cioè che la complessità e articolazione del mondo esterno si traduce in immagini bidimensionali su un piccolo schermo rettangolare – rischiano dunque di acutizzare le criticità già in essere.

Tre sono gli ambiti in cui questi anomalie si stanno manifestando con maggiore intensità: gestire il tempo (personale e dei collaboratori); interagire (… comunicare); riunirsi. Non potendo affrontare in modo sistematico queste tematiche, può essere utile analizzare alcuni esempi per capire quanto lo smart work forzato si collochi all’interno di pratiche di lavoro diffuse già molto problematiche.

Prendiamo per esempio il tempo: una sua gestione corretta e consapevole è vitale – infatti determina la qualità della nostra vita (come è vissuta e come è percepita) – ma è anche molto complessa; innanzitutto perché il tempo passa via e non torna indietro (tempus fugit) e poi perché ci inganna facilmente. Come osserva lo psicologo Philip Zimbardo in Il paradosso del tempo, «la nostra esperienza personale del tempo è sempre un enigma: se viviamo qualcosa di affascinante, abbiamo l’impressione che il tempo voli; … nel ricordo, il tempo che era volato via, si estende. Quando invece ci capita di aspettare, all’aeroporto o nella sala d’aspetto del dentista, le ore non passano mai; ma alla fine la giornata è come se non ci fosse stata. Il tempo che ci era sembrato interminabile si è ristretto, perché non ha lasciato tracce».

Oppure le riunioni, considerati da molti una vera e propria peste che sta ammorbando i luoghi di lavoro. Partecipare a riunioni inutili, inefficaci, inconcludenti e iper-dilatate nel tempo è ormai la regola e non l’eccezione. Ci sono manager che sono perennemente in riunione e, sempre più frequentemente – grazie alla funzione multicall di molti centralini telefonici o alle nuove piattaforme di videocomunicazione – i partecipanti sono sempre in numero maggiore rispetto al necessario.

Pertanto lo smart work forzato imposto in questi tempi di pandemia dalla riduzione di mobilità rischia di accentuare molti comportamenti patologici già diffusi, aumentandone ulteriormente le dimensioni problematiche.

Serve dunque un radicale ripensamento delle pratiche di lavoro – forzato dalla mobilità ridotta e reso possibile dalla rivoluzione digitale – che deve essere però condotto con molta cautela e accuratezza, partendo da un’analisi critica dell’attuale modus operandi (soprattutto la dimensione comunicativa e gestionale) e integrandola con una comprensione non superficiale delle tecnologie digitali e del loro impatto nei contesti umani e organizzativi.

Ritorna al centro la progettazione organizzativa, dunque, che non deve concentrarsi solo sull’efficienza dei processi, ma valutare altre variabili. Donald Norman ci fornisce a questo proposito un importante suggerimento, partendo dalla constatazione che a ciascuno di noi è capitato di spingere una porta invece di tirarla o di rinunciare a lavarsi le mani in un bagno pubblico perché non riusciamo ad azionare il rubinetto. In questi casi la sensazione di incapacità personale è molto forte. Il punto è, sostiene Norman, che la colpa non è dell’utente, bensì di chi ha progettato questi oggetti d’uso comune senza considerare le normali attività mentali, la cui conoscenza è essenziale per la progettazione.

Gli ambienti lavorativi sono oramai lastricati da questi errori, e producono una perversa interazione con gli strumenti digitali di uso quotidiano. Si è infatti pensato che gli strumenti di comunicazione e produttività individuale (posta elettronica, videocomunicazione, messaging, word processor, foglio elettronico, creatore di slide, …) fossero così potenti e immediati da non richiedere una adeguata progettazione organizzativa. Nulla di più sbagliato.

(gv)

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