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    Prima Marinetti, poi McLuhan

    di Gino Agnese

    Marinetti non fu l’unico, tra gli esponenti delle avanguardie artistiche e letterarie, a sostenere che le novità scientifiche e tecniche del suo tempo avrebbero prodotto modifiche nella sfera della sensibilità, oltre che cambiamenti in svariati ambiti; ma probabilmente fu il primo e il solo ad averla chiara e nuda quest’idea, tanto che volle ripetutamente rilanciarla, strutturarla ed aggiornarla in un arco di oltre trentacinque anni. Era un uomo di molta immaginazione, ma non condivise i sontuosi, iperbolici scenari avveniristici di Wells o di Verne, pur frequentando quelle pagine all’epoca del baccalaureato. Né condivise le più tarde salgariane “meraviglie del Duemila”. Tra cause ed effetti scelse percorsi brevi, sempre stando al dunque e semmai a Mario Morasso – di cui nel 1905 era uscito La nuova arma (La macchina), un libro in cui si sosteneva che la diffusione delle innovazioni tecnologiche avrebbe avuto conseguenze “sull’organismo fisico e morale dell’uomo” – e a giovanili letture tomistiche, soprattutto alla celebre sentenza del Nihil est in intellectu quod non sit prius in sensu.

    Tutto ciò può sorprendere se si considera che Marinetti, non avendo inclinazioni scientifiche e tanto meno pratica di meccanica o di elettricità (non guidava l’automobile, non scriveva a macchina) non ebbe una visione ravvicinata, introspettiva del nuovo che appariva ai suoi occhi o si annunciava alla sua intuizione. Ma forse, se si dà ragione alla storiella del pesce, che non ha mai visto il mare perché ci sta dentro, fu proprio quella mancata vicinanza il lievito della riflessione marinettiana rivolta al ruolo delle tecnologie, più precisamente le svariate tecnologie di comunicazione, le fisiche e le immateriali. è una riflessione, la sua, che già si coglie nel manifesto di fondazione del Futurismo, laddove è detto al punto 5: «Noi vogliamo inneggiare all’uomo che tiene il volante, la cui asta ideale attraversa la Terra, lanciata a corsa, essa pure, sul circuito della sua orbita». Invero, quest’asta del volante, impugnata dall’automobilista e virtualmente allungata, prelude a una conclusione a cui Marinetti presto preverrà, con incredibile anticipo rispetto a Marshall McLuhan (cattolico convertito, antico studioso di letteratura, frequentatore di Wyndham Lewis e di Ezra Pound), che la divulgherà negli anni Sessanta: la conclusione per cui si deve constatare che l’uomo contemporaneo si vale di protesi, meccaniche o elettriche, applicate più o meno temporaneamente, più o meno direttamente, al proprio sistema nervoso centrale. Questo, in qualche misura attiva parti di sé, frenandone o trascurandone altre; per cui – sostengono le recenti acquisizioni della neuroscienza – si originano mutamenti nei domini della sensibilità: mutamenti che certo non risuscitano il determinismo ottocentesco, sia per la loro piccola scala e sia per il loro distendersi nel tempo, che spesso li rende inavvertiti; ma che tuttavia producono effetti in tutta una varietà di ambiti, estetico, sociale, politico.

    Ottimisti e pessimisti

    Il futurista Marinetti – è persino superfluo notarlo – pensò che gli effetti prodotti dalle nuove tecnologie e dalle scoperte scientifiche meritassero non soltanto di essere accettati ma, più ancora, di essere accolti con entusiasmo. E dunque egli oggi appare come un capofila della schiera degli ottimisti alla quale – come sappiamo – si oppone quella dei pessimisti, assottigliatasi con l’andar del tempo, ma che anche ultimamente ha messo in campo voci di non poco conto (negli USA gli studiosi Lanier e Carr avvertono che la protesi Internet potrebbe imporsi come la struttura ottimale per la conoscenza). Celiando e azzardando, si può dire che, verosimilmente, l’avranno vinta i primi, gli ottimisti, ma essi prevarranno soprattutto in virtù d’una prospettiva che poco s’intona all’amore futurista del rischio, della spericolatezza, della lotta: è la prospettiva che un bel libro degli anni Settanta riassunse in un titolo indovinatissimo: La vita facilitata.

    Molti anni fa svolsi una ricognizione tra gli scritti marinettiani e ne risultò evidente la continuità dell’attenzione al tema degli effetti prodotti dai dispositivi tecnologici, specialmente, ma anche dalle condizioni ambientali contemporanee, sui più diversi terreni in cui si esercita la sensibilità. Venne in luce una sorprendente attualità del fondatore del Futurismo. E in qualche caso, con buona ragione, si poté celebrare il talento anticipatore di Marinetti, sempre vigile e informato, sempre pronto a spostare in avanti lo sguardo, intenzionalmente spericolato nell’immaginare il seguito di ogni dato colto nel presente. Due brani in particolare meritano di essere ricordati. Il primo, uno stralcio del manifesto Distruzione della sintassi – Immaginazione senza fili – Parole in libertà, del 1913, fu poi riportato da Marinetti nel 1932 in prefazione al libro Tavole parolibere, di Pino Masnata. Il secondo è un passo del Fascino dell’Egitto, del 1933.

    Cominciando da quest’ultimo brano, che si riallaccia ad altri scritti centrati sulle tecnologie – talvolta non soltanto quelle di comunicazione – intese come propaggini, o se si preferisce protesi, del sistema nervoso centrale, si deve osservare come in tali righe risalti lo sviluppo di ciò che riguarda l’asta del volante e la sua proiezione ideale, citate nel manifesto di fondazione. «I nervi che prolungandosi hanno rivestito le note della mia automobile», afferma infatti Marinetti, «mi trasmettono gli svariati godimenti tattici dei pneumatici». Quindi l’automobile è sì un insieme tecnologico, ed è un veicolo. Ma in qualche misura, nella sua interezza, essa è altresì un’estensione della sensibilità dell’automobilista, è un guscio vibrante al quale sono collegati i sensi del guidatore e anche quelli del viaggiatore. Il pilota sportivo, poi, è tutt’uno con la sua macchina, dai muscoli glutei fino all’apparato vestibolare, in tensione estrema. Si può ben capire, allora, che quel guscio metallico possa essere amato e assumere, nell’immaginazione letteraria, fattezze antropomorfe, finanche sessualmente attrattive: dall’Alcova d’acciaio di Marinetti alla Mechanical Bride di McLuhan, ovvero dall’autoblinda “fidanzata” del poeta alle opulente, formose automobili che gli americani accarezzavano con gli occhi e con lo sguardo negli anni Cinquanta.

    I “modificatori della nostra sensibilità”

    I media e i mezzi di trasporto “sono modificatori della nostra sensibilità”, scrive Marinetti in quel suo manifesto del 1913. E spiega: «Coloro che usano oggi del telegrafo, del telefono e del grammofono, del treno, della bicicletta, della motocicletta, dell’automobile, del transatlantico, del dirigibile, dell’aeroplano, del cinematografo, del grande quotidiano (sintesi di una giornata del mondo) non pensano che queste diverse forme di comunicazione, di trasporto e d’informazione esercitano sulla loro psiche una decisiva influenza». Egli poi elenca una serie di condizioni – nuove all’epoca – e retoricamente pone la questione di come sia possibile restare indifferenti dinanzi a esse. Infine offre la sua opinione – che è e resta la opinione di un poeta – in diciassette punti che chiudono il manifesto. Alcuni fanno sorridere, altri invece stupiscono per come vanno a bersaglio oggi. è qui da citare il punto dove accenna all’acquisizione d’un “nuovo senso del mondo”, conseguente a “la terra rimpicciolita della velocità”. La quale velocità suggerisce – e tutti noi ne facciamo continuamente esperienza – l’abbreviazione, la riduzione a riassunto di qualsivoglia argomento; insomma la brevitas a tutti i costi.

    Nota ancora Marinetti che, nel pianeta divenuto più piccolo, si predilige la realtà vista di scorcio (una derivazione dell’abitudine a guardare attraverso i finestrini dell’auto) o sopravviene “la nausea della linea curva”, per cui si sceglie più di frequente la retta. Ecco anche l’urgenza del parlare diretto, il verbo all’infinito, senza preamboli e cautele, nella città dove il tempo stringe e il rumore di fondo scorre. “Passione per la città”, scrive Marinetti in quel suo lontano manifesto indicando l’impetuoso sentimento come un portato di tutti i fattori di modifica della sensibilità, attivi nella condizione urbana delle relazioni fitte, del tram elettrico, del motore a scoppio, delle notti illuminate. è la città che presto, tempo una dozzina d’anni, accoglierà la radiodiffusione e la diffusione della grammofonia, con un conseguente slittamento “dall’occhio all’orecchio”, per dirla con la nota, felice sintesi di McLuhan; il quale certamente sconcertava quando sosteneva che anche la televisione è un medium eminentemente auditivo (“incide le immagini sulla nostra pelle”), ma ebbe ragione, eccome, quando prim’ancora che entrasse in uso il telecomando – e con questo s’inaugurassero le funzioni interattive – ripeté che quel medium avrebbe mobilitato un altro senso: il tatto, proprio il tatto, che Marinetti aveva innalzato all’attenzione del mondo culturale (artistico e teatrale, in primo luogo) con il suo celebre manifesto Il Tattilismo, del 14 gennaio 1921.

    Ancora: Marinetti capì che “il medium è il messaggio”. Tutto un ventaglio di pratiche da lui messe in campo sin dal primo decennio del Novecento lo dimostra e anche in questo anticipò McLuhan, il quale però seppe alzarsi alla sintesi teorica, rappresentata da quelle cinque parole. La “serata futurista”, inventata da Marinetti per lanciare il suo movimento, e poi per animarlo, fu in effetti un medium e fu un messaggio. Saranno per l’occasione recitate delle poesie, saranno forse lanciati alla sala dei proclami o delle musiche e avverrà forse dell’altro. Ma tutto ciò che sarà detto dal palcoscenico non lascerà traccia apprezzabile, tantomeno negli accesi resoconti dei giornali l’indomani. Svanirà nascendo, nello svolgersi imprevisto, imprevedibile, dell’interazione ingovernabile, tumultuosa, tra i futuristi attori e la platea. In ogni storia del Futurismo è raccontata la “serata futurista” del 20 aprile 1910 al teatro Mercadante di Napoli, che ebbe un’eco incredibile. Ma di essa sono ignorati, o trascurati, i contenuti. La serata fu il messaggio, non già il suo dettaglio, che poté essere eccellente o mediocre, chissà se qualcuno se lo chiese mai. E fu un messaggio che, come nei casi di tante altre seguenti serate, strada facendo si arricchì o comunque, si caricò di sensi e significati, persino sorprendenti. Il viaggio di un messaggio è imprevedibile.

    Messaggi futuristi

    L’attività di comunicazione è essa stessa il messaggio nella concezione di Marinetti. Che pure è un poeta, un prosatore, un “teatrista”, un autore di manifesti teorici. Il “Quarto d’ora di poesia” ch’egli promuove mentre tutto crolla, nell’inverno del 1944, è in sé un’invenzione poetica, è un messaggio, e poco o punto importa che in quei quindici minuti quotidiani scippati al predominio della guerra si declamino liriche alte o modeste. La poesia è in quello scippo. Poi ancora: se il libro è un medium – e sappiamo bene che per McLuhan lo è – che cosa fu se non un messaggio, un messaggio futurista, il libro Depero futurista che Fedele Azari imbullonò nel 1927? E non fu più inequivocabilmente un medium-messaggio il Litolatta, vale a dire il libro dalle pagine metalliche, decorate di parole, che Marinetti firmò con Tullio d’Albissola nel 1932?

    In tutta la sua opera, ch’io sappia, Marshall McLuhan, dei futuristi, non cita che Boccioni, una volta. Ma io ho sempre supposto che, non soltanto dalle parole di Pound e di Lewis, ma anche da libri in francese, conoscesse anche Marinetti, e piuttosto bene.

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