Quello della migrazione costituisce un campo di analisi della modernità fondamentale per valutare l’attuale crisi della comunicazione e la qualità del giornalismo in Italia.
di Mario Morcellini
Perché il tema delle migrazioni ha un impatto così forte sulla nostra realtà? Una prima risposta a questo brusco interrogativo chiama in causa il posizionamento del giornalismo e della comunicazione. In pochi casi come quello della costruzione dell’immagine dei migranti appare più limpido il potere dei media. In generale, comunque, la tematica è delicata e sensibile per tutte le società industriali moderne e, dunque, per affrontarla esige razionalità e dati; non solo uno scatto di autoriflessione e responsabilità da parte dei media. Perché occorre riconoscerlo: la risposta più tipica nel descrivere il fenomeno della immigrazione è ancora quella dell’emergenza. Aumenta dissennatamente l’inquietudine individuale e collettiva, anche perché evoca altri tipi di emergenze che la modernità non ci ha risparmiato, come terrorismo e disastri naturali. Non c’è infatti bisogno di studi sofisticati per ammettere che l’emergenza è il contrario della routine e già questa semplice constatazione ha un’ovvia conseguenza: trattare come emergenziale il tema dell’immigrazione significa cancellare la quotidianità e la continuità dell’azione di centinaia di migliaia di persone; ma anche sottovalutare lo straordinario potere di integrazione della vita di tutti i giorni. Comporta una perdita di specificità del fenomeno e un implicito di-sconoscimento che l’arrivo dei migranti in Italia è, ormai, una situazione a cui il sistema sociale si è in qualche misura adattato e che assume comunque una sua profondità storica. Conviviamo con i migranti da oltre due decenni e abbiamo tutte le possibilità identitarie e culturali per gestire questa che, concettualmente, non può essere più considerata un’emergenza.
Ciò non significa disconoscere la complessità della questione della migrazione. Essa è per definizione dura da affrontare: lo è sempre stata anche storicamente, pur in epoche in cui gli spostamenti di popolazioni da un’area a un’altra erano caratterizzati da spirito di occupazione e di dominio. Lo è tanto più quando si rovescia la filosofia per cui si va in un altro paese per cercare condizioni più civili di vita e di benessere, magari per fuggire dalla povertà o dall’oppressione politica. La complessità si acuisce poi per i tratti psicologici connessi all’arrivo in un altro paese, con un prevedibile carico di attese e di frustrazioni esistenziali.
Di fronte a questo giacimento di tensioni e interrogandoci sulle evidenze dei comportamenti dei media, la prima cosa che viene in mente è la contestazione del loro ruolo nella diffusione della paura. Quali timori sono oggettivi e «reali» e quali, invece, sono creati e alimentati dai media? L’interrogativo rischia di essere scolastico, ma non possiamo dimenticare che ciò che accade nell’immaginario comporta plausibilmente conseguenze reali. Il contributo dei media nel processo di costruzione della realtà consiste proprio nella riconfigurazione e nella definizione dei temi problematici e controversi. E ciò avviene plausibilmente in due direzioni: la prima investe il modo in cui la sensazione di sicurezza si traduce in termini di qualità della vita e di relazioni tra gli individui; la seconda attiene, invece, alle dimensioni collettive del fenomeno, che finiscono per interessare direttamente la politica e le istituzioni, aprendo inedite e rilevanti questioni di responsabilità. è anche un espediente utile per approfondire le diverse valutazioni, sottoponendole alla luce dell’osservazione e del confronto di dati scientificamente fondati.
Ebbene, è proprio l’analisi delle ricerche a ricordarci che la percezione del rischio non è legata semplicemente all’incidenza statistica degli eventi negativi, ma si costruisce e si determina soprattutto in relazione alle loro rappresentazioni sociali e al modo in cui queste sono rielaborate e diffuse dai media, alimentando il circuito vizioso della comunicazione. I media finiscono così per avere un’incidenza oggettivamente centrale in termini di agenda: andando talora ben al di là di una consapevole tematizzazione, finiscono per enfatizzare le potenziali minacce alla sicurezza e, soprattutto, rappresentano una variabile attiva nella sua percezione da parte dei cittadini. Le paure, dunque, si succedono in un rincorrersi di strumentalizzazioni da parte della comunicazione: si pensi alla paura dell’immigrato, a quella delle rapine, dei furti e della microcriminalità di strada, al timore degli incidenti stradali causati da giovani ubriachi o drogati o da camionisti stranieri altrettanto alterati, all’impatto della violenza giovanile e del bullismo, alla percezione del lavoro mancante o precario eccetera.
Il binomio sicurezza/immigrazione, per esempio, continua a dominare i contenuti del dibattito politico e del palcoscenico mediale. Secondo la Ricerca nazionale su immigrazione e asilo nei media italiani (1) la congiunzione delle due dimensioni – fenomeno migratorio e sicurezza – è il paradigma interpretativo privilegiato dai media nei racconti delle dinamiche in atto nel contesto italiano. Non solo il singolo fatto di cronaca viene ricondotto all’immigrazione in quanto tale, ma tutto il recente interesse per la sicurezza sembra ruotare intorno alla presenza, in termini emergenziali e straordinari, di persone provenienti da luoghi diversi. Emerge che l’immigrazione si configura a tutti gli effetti come un tema, degno di approfondimenti, commenti, contestualizzazioni, anche al di là del mero richiamo a un fatto di cronaca. è però significativo che ciò avvenga molto spesso, precisamente nell’80 per cento dei servizi televisivi, tematizzando contemporaneamente la sicurezza. Chiavi della copertura dei media, criminalità e sicurezza costituiscono un paradigma, praticamente l’unico, con cui leggere il fenomeno migratorio.
Nella costruzione mediale del discorso pubblico sull’immigrazione, diventa interessante osservare come il crimine, la minaccia e la paura si siano imposti come riferimenti pressoché obbligatori nella rappresentazione giornalistica dello straniero. Su tutto domina l’etichetta di clandestinità che, prima di ogni altro termine, definisce l’immigrazione in quanto tale. Rom e rumeni sono il gruppo etnico e la nazionalità più frequentemente citati nei titoli dei telegiornali. Mentre in quelli pubblicati sui quotidiani le questioni relative all’immigrazione sembrano persino più vincolate alla condizione giuridica dell’immigrato e agli episodi di cronaca nera.
Le parole, dunque, contribuiscono a tematizzare la presenza degli immigrati in Italia con un riferimento forte alla minaccia costituita dagli stranieri alla sicurezza degli italiani. Si ripropone così il problema dello stato di clandestinità degli immigrati, la sicurezza dei cittadini «italiani» e le politiche di regolazione dei flussi messe in atto dal governo per contrastare fenomeni emergenti di criminalità legati a specifiche appartenenze nazionali e etniche: in primo luogo a cittadini romeni e ad appartenenti al popolo Rom. Gli stranieri ottengono maggior visibilità nell’informazione quando sono protagonisti di fatti criminali rispetto agli italiani: il 59,7 per cento contro il 46,3 per cento sui telegiornali e il 42,9 per cento contro il 35,7 per cento sulla stampa. La situazione si inverte quando la copertura informativa è incentrata sull’iter giudiziario: se riguarda gli stranieri è seguito con il 16,5 per cento nei telegiornali e il 14,2 per cento nella stampa, mentre, se i protagonisti sono italiani, l’attenzione arriva quasi a raddoppiare (TG 27,3 per cento, stampa 30,4 per cento).
è così che, oltre a un diverso trattamento informativo ancorato alla nazionalità dei protagonisti, gli stranieri sono cristallizzati in un eterno fermo immagine, che ne «fissa» la soggettività solo nel momento dell’atto criminale, sovraesponendoli nella cronaca nera. Mentre la loro visibilità si contrae nel racconto processuale: ed è in questo contesto che potrebbero emergere le effettive responsabilità penali e le caratteristiche umane. In una società «dopata» dagli exploit della comunicazione diventano più evidenti la fragilità del ruolo di mediazione del giornalismo e la stessa povertà linguistica dei contenuti che esso mette in scena. Lo stile è quello tipico delle agenzie di stampa. I pezzi sono a utilità ripetuta, il linguaggio si «arricchisce» di termini che suscitano timore e ansia. Mentre quel che serve è un resoconto che dalla cronaca sappia passare alla spiegazione o, perlomeno, al tentativo di contestualizzare più analiticamente persone ed eventi. Agli studiosi dei media l’interrogativo si pone in tutta la sua urgenza. La vertenza qualità sul giornalismo non può che estendersi a un più generale slancio di attenzione alle dimensioni della formazione professionale e culturale di tutti gli operatori della comunicazione.
L’immigrazione è un problema reale, ma ancor più rilevante è la sua rappresentazione simbolica. L’atteggiamento di diffidenza che i media contribuiscono a costruire non aiuta il superamento dei conflitti, né apre alla soluzione dei problemi che l’immigrazione stessa pone. Ne consegue che il nesso fra stereotipi e pigrizie narrative finisce per fondare un’equivoca rappresentazione dell’altro, derubricato come minaccia incombente sulla nostra cultura e sulla nostra vita. Giornalismo e politica, d’altronde, sono accomunati da una qualche incapacità di capire il cambiamento e di leggere le tendenze in atto, facendo leva su poche idee semplici e favorendo possibili processi di speculazione sulla paura. Un atteggiamento che si esprime nel modo in cui le coscienze dei cittadini sono eccitate sui temi della cronaca nera e dell’immigrazione: una narrazione di trasgressioni individuali che puntualmente rifuggono da qualunque spiegazione sistemica, collettiva e sociale dell’insicurezza.
Il modo di trattare il tema dell’immigrazione rappresenta, quindi, un vero indicatore dei tempi moderni perché, prima ancora di indicare il deficit di capitale sociale del nostro tempo, parla di noi e delle nostre insicurezze, della nostra crisi e recessione civile. Sono una cultura e un’identità debole quelle che si fanno stressare dal contatto con culture altre, che per di più arrivano in condizioni di minor forza e competenza comunicativa. Emerge qui l’effetto perverso della globalizzazione, che si radicalizza nella sua semplificazione mediatica. Il messaggio più forte, dunque, è quello di affidarsi alla «cultura dei dati» che è l’unica scelta razionale, se vogliamo sciogliere positivamente i nodi posti dalle migrazioni alle società moderne. Entro una critica più stringente della nostra condizione culturale e civile.
MARIO MORCELLINI
I dati sono relativi al monitoraggio dei sette telegiornali nazionali (Rai, Mediaset, La7) analizzati per una settimana al mese nel periodo compreso tra gennaio e giugno 2008. Cfr. Ricerca nazionale su immigrazione e asilo nei media italiani, Facoltà di Scienze della Comunicazione, Sapienza Università di Roma. www.cattivenotizie.wordpress.com