Due opposte concezioni del cambiamento, alla prova del fare.
di Gian Piero Jacobelli
In una struggente poesia intitolata In automobile sotto la pioggia, Nino Oxilia (1888-1917), regista cinematografico e commediografo, autore della proverbiale Addio giovinezza!, riecheggiava, con toni accesi tra la maniera decadentista e quella futurista, tutti i temi di una modernità ansiosa e stanca prima ancora di affermarsi e di venire condivisa: «Rivivere significa morire / e vivere significa passare».
La guerra mondiale era alle porte; le prime automobili rombavano su strade non asfaltate, l’amore non era uno «stato nascente», come avrebbe detto Francesco Alberoni, ma uno stato morente, anche se vivacemente squassato dai singulti dell’agonia. «E rividi passare in strade nuove / alberi nudi in corsa, forme stanche / mentre il suo volto sulle mani bianche / guardava altrove. Ché il domani è altrove»: una metafora in cui, associandosi una indicazione di tempo, il domani, e una indicazione di spazio, l’altrove, sembra implicita una lacerante provocazione esistenziale; in ragione della quale, contrariamente alla ipocrisia gattopardesca, perché qualcosa cambi, tutto deve cambiare e nulla può restare identico, se non come ricordo di ciò che è cambiato.
Sulla base di questa confluenza tra l’inevitabile rifiuto del passato, il depresso riconoscimento del presente, l’incerta aspirazione al futuro, abbiamo in queste pagine ripetutamente proposto una riflessione sul passaggio, inteso come la forma mitico-rituale nel cui ambito è possibile interpretare responsabilmente il cambiamento, senza imporlo e, al tempo stesso, senza subirlo. Una forma che – sia chiaro – non è una volta per tutte, se non nelle culture che si sono progressivamente cristallizzate in una tradizione condivisa, ma, come suggerisce anche Oxilia, si frammenta ontologicamente in una incessante moltiplicazione speculare.
Si prenda un qualsiasi rito di passaggio, di quelli che ancora sussistono nella civiltà contemporanea, tra fisiologiche maturazioni identitarie e artificiosi modelli mediatici: per esempio, il matrimonio, che conserva un proprio rilievo esistenziale, per quanto deturpato dalle grottesche liturgie dei sempre più numerosi «registi di matrimonio», secondo il titolo di un ispirato e paradossale film di Marco Bellocchio. Ebbene, non basta sposarsi, uscendo di casa, sostando per il tempo necessario in un tempio laico o religioso, rientrando in un’altra casa, perché il rito di passaggio possa dirsi compiuto. In realtà, i riti di passaggio si configurano come strutture frattalicamente inscatolate, per cui in ognuno se ne celano infiniti altri: così, nel matrimonio, il fidanzamento, l’ultima cena in famiglia o con gli amici, il ricevimento con il bacio della sposa e il taglio della torta, fino al famigerato viaggio di nozze e via dicendo. Tanti altri più minuti, talvolta inavvertiti riti di passaggio che, per così dire, articolano e saturano di sensi reconditi il rito principale, fino a renderlo il simbolo di una intera vita.
L’evento è qualcosa che viene o che va?
Ma proprio questa spalmatura frattalica del rito di passaggio sembra attenuare gli sconcertanti scarti esistenziali che la vita comporta, consentendo di «raddrizzarne» l’andamento contorto e spesso contraddittorio in una presunta interpretazione lineare, dove tutto si collega in successioni apparenti, con conseguenze anche filosoficamente rilevanti. Per esempio, contro una vita a sussulti e strappi si schiera esplicitamente un reputato studioso delle civiltà orientali, e in particolare della cinese «filosofia della compatibilità, come François Jullien, in un saggio recentemente tradotto in italiano con il titolo Le trasformazioni silenziose (Raffaello Cortina, 2010). Lo fa senza mezzi termini, negando sussulti e strappi con una retorica tutta a strappi e sussulti: «Un evento non è un istante qualsiasi, ma assume rilievo e si distacca rispetto a quel rinnovamento continuo da cui nasce la durata. […] Ma esiste effettivamente un evento del genere, vale a dire un modo diverso da quello di una rappresentazione fittizia e mitologica? O non sarebbe che l’affioramento visibile, come una linea di schiuma, di trasformazioni che rimangono invisibili come il movimento nascosto, di fondo, di un’onda d’acqua?».
In poche righe il gioco è praticamente compiuto, sia sul piano della realtà, sia su quello delle sue rappresentazioni: chi ci dice, infatti, che l’evento sia il frutto di un incontro con qualcosa che viene da fuori e che soltanto potrebbe giustificarne la novità, o non piuttosto il «risultato» di una silenziosa maturazione, che il chiasso della civiltà mediatica non ci consente di percepire? Persino l’amore, aggiunge Jullien, cioè l’esempio più ricorrente di qualcosa che ci travolge all’improvviso, personificandosi in un altro innegabilmente altro, potrebbe essere il frutto di una condizione interiore che attende soltanto un pretesto per accendersi, per imporsi, per dispiegarsi.
Dall’amore alla guerra: anche l’11 settembre, un evento che più evento non si potrebbe, nella misura in cui ha rotto l’equilibrio della storia del mondo, «sarebbe piuttosto l’affioramento visibile, sonoro e anche spettacolare, per come è scoppiato, della trasformazione che rimane silenziosa, proprio perché globale». Alla spettacolarizzazione, che indubbiamente condiziona la emergenza degli eventi, collegandoli alla rivoluzione multimediatica, si aggiunge una «struttura della narrazione», che nella tradizione occidentale si muove per incontri, confronti e scontri, ovvero, per riprendere il grande mito religioso del cristianesimo, in creazioni, incarnazioni, resurrezioni e via dicendo.
Va detto, en passant – che allude a un passaggio marginale, in grado tuttavia di istituire con il discorso quel rapporto di relativizzazione in cui risiede il suo valore iniziatico – come, muovendo da queste considerazioni di fondo, Jullien instauri una significativa polemica «politica» con uno dei maggiori filosofi francesi viventi, Alain Badiou, il quale proprio sull’evento ha fondato la sua riflessione in merito alla esigenza che, per cambiare, qualcosa debba cambiare per qualcuno: «Servendo al meglio l’ideologia della rottura che è tanto cara all’Europa, l’evento continua a fecondare ancora oggi la filosofia. Quando Alain Badiou rileva che ciò che chiama alla “composizione” di un Soggetto deve necessariamente intervenire in più rispetto al dato oggettivo – vale a dire “sopraggiungere” alle situazioni come ciò di cui le situazioni non potrebbero di per sé rendere conto – e definisce questo supplemento, per contrasto con l’oscura inerzia delle circostanze, un “evento”, rimane perfettamente nel solco della mitologia europea che fa dell’evento la sola via di effrazione possibile rispetto al condizionato, e dunque di un’affermazione della Libertà.
Il richiamo alla «Libertà con la maiuscola sembra alludere, un poco ironicamente, alla filigrana ideologica, e rivoluzionaria, in cui il pensiero dell’evento si iscrive, ma, a nostro avviso, denuncia anche la segreta convinzione che qualcosa possa avvenire in forza della presunta tendenza del mondo a «muoversi» prescindendo dalle persone, se non altro per i tempi lunghi che comporta, così lunghi da sottrarre alla umana consapevolezza persino la percezione di ciò che avviene.
Un movimento più languido
Per altro, la idea della «trasformazione silenziosa», secondo Jullien, ha lasciato tracce anche nella cultura occidentale e non a caso viene ripetutamente citato Montaigne, al quale, in effetti, si deve una delle considerazioni più straordinarie e suggestive sul «disorientamento estatico» in cui incorre ogni epoca di profonde e ancora indecifrate trasformazioni: «Il mondo non è che un movimento continuo. Ogni cosa vi si muove senza tregua: la terra, le rocce del Caucaso, le piramidi d’Egitto, e del movimento pubblico e del proprio. La stessa costanza altro non è che un movimento più languido. Non posso assicurare il mio oggetto. Se ne va fosco e barcollante, di una ebbrezza naturale. Lo colgo in questo punto, come si presenta, nell’istante in cui me ne interesso».
Ma Montaigne, spirito grande quanto altri mai, nei suoi celebri Essais, non voleva riservare all’oggetto il peso del divenire, di un divenire che sfugge alla volontà del soggetto. Almeno secondo il nostro modo d’intenderlo, voleva richiamare il soggetto a una responsabilità di interpretazione attiva del mondo che qualche decennio dopo troverà in Galilei il suo massimo esponente scientifico. La «liquidità, che anticipa di quattro secoli le brillanti, ma scorate analisi di Zygmunt Bauman, nella prospettiva di Montaigne allude a una «navigazione» ante litteram, che si apparenta con quella della Rete, del mondo virtuale in cui non si sa mai dove si va, ma bisogna cercare di andarci lo stesso.
Al contrario, Jullien sembra intravedere in una sorta di adattamento all’orientale l’unica opportunità dell’umano operare: «Il concetto di trasformazione silenziosa non soltanto evita così di dover separare quel che “arriva” da ciò che lo porta (piuttosto che da ciò che lo “causa”), l’evenemenziale dal tendenziale, ma permette anche di seguire le evoluzioni secondo il loro orientamento senza più agganciarle ideologicamente a qualche Avvento atteso: di sondare in esse le linee di forza che vi sono operanti e la loro direzione, senza presupporvi più un Senso e una destinazione». Ancora una volta, le maiuscole sono originali, a testimonianza di una deriva metafisica, che si traduce in una insistente polemica nei confronti delle diverse declinazioni della modernità, dalla moda ai diversi e creativamente incongrui modi di essere.
Come fare per fare?
Per altro, lo stesso Jullien si rende conto che nei confronti della trasformazione silenziosa il problema è proprio quello di come incidere, di come mantenere una presa sulla realtà non riconducibile e riducibile alla passiva accettazione di quanto non viene, perché semplicemente si muove sui tempi lunghi. Ne scaturisce una ipotesi, per noi insoddisfacente, di gestione per induzione: «Piuttosto che pretendere di proiettare immediatamente la propria azione sul corso delle cose e di imporla a esso, “indurre” è sapere intraprendere discretamente un processo, da lontano, ma tale che sia portato da sé a svilupparsi; e che, infiltrandosi nella situazione, giunga, a poco a poco e senza neppure che ce ne rendiamo conto, a trasformarla silenziosamente».
Rispetto a questa «arte della maturazione», la nozione di passaggio può offrire una strategia alternativa, se non valida per definizione, quanto meno convalidabile per applicazione: quella di un mondo che non va compreso, ma «fatto essere»; quella di un «fare che sia», non basato sulla contrapposizione – spesso controproducente, come giustamente segnala Jullien – ma sull’aggiramento, sulla «mossa del cavallo». Su quel distacco intellettuale per il quale ogni resistenza alla comprensione può tradursi in un esercizio ermeneutico, in un guardare oltre, non verso ciò che è, ma verso ciò che può essere, per noi e per gli altri. Se «vivere significa passare», «passare» può significare «vivere».