Il “pensiero della morte” sta al centro dell’ultimo fascicolo di MIT Technology Review USA, a cavallo tra la fantascienza tanatologica e la presa d’atto di quanto siano fragili e comunque provvisori i nostri corpi, nonostante le crescenti possibilità offerte dalla medicina e dalla genetica: considerazioni che tuttavia non sottraggono, ma conferiscono più senso alla vita.
“Con la morte non si scherza”, titolava scherzosamente la versione italiana di una non felicissima e un poco artificiosa commedia cinematografica firmata da Arthur Penn nel 1989. In quella commedia una coppia di illusionisti televisivi sfidava ripetutamente il pubblico a ucciderli, finché qualcuno li prese in parola, con tutte le conseguenze del caso. Una sorta di metafora di una vita che sa sempre meno confrontarsi con la morte, trasformandola in una sorta di gioco a rimpiattino, del genere: “Mi nascondo per sapere cosa diranno gli altri di me quando non si sarò più”.
Di questa morte per interposta persona si parla forse troppo e con troppa sufficienza proprio per evitare quanto possibile di doversene fare carico in prima persona, come qualcosa di inevitabile e di non negoziabile, tanto in punto di diritto quanto in punto di fatto. Forse anche perché sempre più spesso e sempre con maggiore fumisteria mediatica, il progresso tecnologico sta profondendo a piene mani la pia, ma blasfema illusione che si possa anche fare a meno della morte. O quanto meno che si possa aggirare la morte, procrastinandola volta a volta oltre la nostra speranza di vita, magari perseguendo una morte apparente per rinascere, se e quando le condizioni lo permetteranno, a nuova vita.
Già soltanto il labirinto linguistico in cui ci si deve inoltrare quando si parla della morte – nascere, vivere, morire, rinascere, rivivere per non rimorire, e via dicendo – costituisce un indizio eloquente dell’imbarazzo concettuale ed emotivo con cui si affrontano problemi a cui persino la legislazione corrente non riesce a tenere dietro, tutte le volte che cerca di determinare i labili confini tra la vita e la morte, tra il diritto alla vita e il diritto alla morte. Anche se talvolta i ritardi normativi in proposito possono venire attribuiti, più che alla consapevolezza di sapere troppo poco, alla pretesa di sapere troppo.
Non a caso l’ultimo fascicolo di “MIT Technology Review USA” (novembre-dicembre 2022) si presenta e si qualifica proprio all’insegna della morte, con una per altro graficamente bellissima, e intellettualmente coraggiosa, copertina “a lutto”, “animata” esclusivamente da un piccolo segno di vita, una fievole pulsazione cardiaca che progressivamente s’illumina sull’interrogativo: “Is there a limit to human life?”, “C’è un limite alla vita umana?”. Un interrogativo evidentemente retorico, per alludere al fatto che, nonostante gli sforzi per rimuoverlo o quanto meno per dilazionarlo, un limite alla vita umana esiste. Anzi, deve esistere, perché altrimenti la vita stessa perderebbe il suo imprescindibile valore creativo, che resta comunque un valore differenziale e in qualche modo estemporaneo.
In questo fascicolo, come sintetizza incisivamente il direttore responsabile della rivista bostoniana, Mat Honan, vengono esplorate le tante e diverse possibilità offerte dalla tecnologia contemporanea per “alterare i nostri corpi”, consentendo di “prolungare significativamente la vita”. Ovviamente, una vita degna di venire vissuta. Il problema, infatti, non è soltanto quello di morire il più tardi possibile, ma di evitare o quanto meno ritardare l’invecchiamento con tutti i suoi progressivi disagi e i suoi inevitabili dolori.
Da un lato, i ricercatori cercano di riprogrammare le nostre cellule, utilizzando le risorse del cosiddetto CRISPR (Clustered Regularly Interspaced Short Palindromic Repeats), la tecnologia enzimatica messa punto nel 2012, che consente di modificare geneticamente qualunque tipo di cellula, vegetale o animale, incluse quelle umane. Questa sorta di forbice molecolare potenziata potrebbe modificarne il patrimonio genetico, per rendere le nostre cellule nuovamente giovani, allungandone la vita. Dall’altro lato, qualora proprio non si trovassero soluzioni geneticamente adeguate, si potrebbero perseguire le indicazioni della fantascienza in merito al congelamento dei nostri corpi cagionevoli o malati, in attesa del momento in cui diventasse possibile curarli in maniera efficace e duratura, restituendoli a nuova vita, anche se ci si troverebbe a vivere una vita sconosciuta, a cui forse riuscirebbe molto difficoltoso adattarsi.
Ma non basta. Passando dalla dimensione reale a quella virtuale, la dimensione del Metaverso che va oggi tanto di moda, anche se pochi sanno a cosa si riferisca davvero, non si può non citare la prospettiva, sotto molti aspetti quasi allucinante, di realizzare, mediante le risorse offerte dalla Intelligenza Artificiale, delle repliche digitali di ciascuno di noi o di quanti ci stanno a cuore, lasciando che questi cloni visivi e acustici prendano il nostro o il loro posto quando verrà il momento di andarsene. Ma appare evidente che in questo caso il concetto di sopravvivenza sarebbe letteralmente relativo, in quanto si tratterrebbe fatalmente di una sopravvivenza per gli altri e mai per noi stessi.
Come si vede, ogni ipotesi che tenda a rimuovere la morte finisce per approdare in sconcertanti e spesso inconcludenti paralogismi. Da questo punto di vista ha ragione Mat Honan quando conclude che forse, per quanto paradossale, la soluzione umanamente più congrua e comprensibile per non morire potrebbe essere quella di morire davvero “donando il proprio corpo alla scienza”, perché la medicina possa progredire, giovando così a una buona vita e anche a una buona morte.
Aggiungeremmo noi che, in uno spirito di generoso altruismo, oltre a donare il proprio corpo alla scienza si può anche donare il proprio corpo agli altri, consentendo l’espianto post mortem degli organi e tessuti ancora sani, in grado quindi di contribuire alla solidale sopravvivenza di nostri simili in difficoltà. Per chi ha accettato il proprio destino, ma desidera che la sua morte possa aiutare gli altri a vivere più a lungo, questo è un modo per non morire morendo, vale a dire facendo vivere meglio qualcun altro.
“Con la morte non si scherza”, citavamo all’inizio, per concludere che con la morte non si può neppure giocare, come faceva Antonius Block, il protagonista di Il settimo sigillo, il misterioso e inquietante film di Ingmar Bergman, perché una partita a scacchi con la morte è persa per definizione in quanto con la morte si può solo prendere tempo, ma non la si può battere.
Il fatto è che alla morte non si può neppure davvero pensare, quanto meno alla nostra morte, perché pensare alla morte costituisce già un estremo atto di vita. Così scriveva mirabilmente, alla fine del Seicento, nella sua Etica, il grande filosofo ebreo Baruch Spinoza, scomunicato proprio perché voleva vivere pienamente nel mondo e non oltre il mondo: “L’uomo libero a nessuna cosa pensa meno che alla morte: e la sua saggezza è una meditazione della vita, non della morte”. Perché “l’uomo libero, cioè colui che vive sotto la sola guida della ragione, non è guidato dalla paura della morte, ma desidera direttamente il bene, cioè agire, vivere, conservare il proprio essere avendo quale fondamento la ricerca del proprio utile”. Perciò “a nulla pensa meno che alla morte e la sua saggezza è una meditazione della vita”.
(gv)