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    MEZZI GIUSTI E MEZZI INGIUSTI

    di Alberto Abruzzese

    Cellulari, palmari e altro stanno per mutare il nostro ambiente in direzioni difficili da immaginare. Sembrano essere in linea con la tradizione moderna, con l’ampliamento delle basi della democrazia, con il culto delle comodità e del benessere. Tanto che la tecnologia wireless guarda anche al target delle persone disabili per tentare di alleviare l’estremo disagio di quanti vivono in «un ambiente che non è fatto per loro». Un gruppo di 25 ricercatori del Georgia Institute of Technology lavora a strumenti di compensazione artificiale di vari tipi di disabilità: motoria, visiva, acustica.

    John Peifer, condirettore del gruppo, punta su «sistemi pratici ed economici», ritenendo che, dal momento che la tecnologia wireless «sarà centrale nel nostro futuro», bisogna evitare che i disabili ne vengano esclusi.

    Jack Wood ha messo a punto un apparecchio per persone affette da sordità, in grado di tradurre la viva voce nel linguaggio dei segni per non udenti: le parole dette vengono visualizzate sul display di un palmare o di un mini-monitor installato su occhiali. Così si può seguire l’azione e al contempo leggere le parole in una piccola porzione delle lenti, così da non pregiudicare il campo visivo.

    Tracy Westeyn sperimenta pannelli di comando sensibili a movimenti a distanza: può aiutare le persone colpite da difficoltà motorie.

    Infine, Jeff Wilson progetta un sistema percettivo fondato sul suono e destinato ai non vedenti: un paio di cuffie e una borsa con un computer wireless controllato da un dispositivo manuale.

    Grazie a un sensore GPS attaccato alla borsa e uno alle cuffie per registrare i movimenti della testa, il computer guida il disabile attraverso una sorta di spazio sonoro. «Questo congegno può aiutare tantissimo i non vedenti, rendendoli liberi di muoversi autonomamente», dice Peifer. «La tecnologia, adesso, consente loro di fare cose che prima non avrebbero mai potuto fare». Già questi soli tre casi – da lasciare sullo sfondo della questione che qui più mi preme – bastano a qualche interessante considerazione: quanto la ricerca tecnologica per fini di pace abbia a che vedere con lo sviluppo delle tecnologie di guerra e quindi quanto la soddisfazione dei bisogni dei disabili sia assoggettata al desiderio di onnipotenza degli abili.

    La tecnologia wireless sta operando su più piani e in diverse direzioni. Ne siamo informati nei modi tipici della nostra società dei consumi e cioè con rappresentazioni che sovrappongono tra loro tre livelli in modo che ciascuno sia il contenuto dell’altro: la notizia dei prodotti che sono stati introdotti o stanno per essere introdotti sul mercato; il loro trattamento pubblicitario (in senso lato e quindi anche ideologico oltre che merceologico); la sceneggiatura mediatica delle opinioni espresse in termini di consenso, dissenso, conflitto, mediazione rispetto alle loro qualità. è il modo in cui un sistema democratico e di mercato «ambientalizza» una innovazione tecnologica; ne promuove e insieme ne metabolizza l’ingresso in società; le fa proprie, appropriate. Un ingresso che ha bisogno di grandi capitali non solo economici, ma anche culturali. A ogni snodo delle tecnologie – e quelle legate al computer e ai linguaggi digitali segnano davvero un epocale distacco da quelle della società industriale – la rielaborazione culturale dell’ambiente in cui diffondere tali tecnologie si fa essenziale sia per creare l’alone fascinatorio di un desiderio giunto al suo culmine e finalmente realizzabile, sia per arginare le paure per un così traumatico mutamento, per l’insicurezza che ogni trapasso in altri territori comporta. La portata di queste risorse, il loro costo, merita che esse non siano sprecate e servano a un effettivo miglioramento della condizione umana.

    Sappiamo dei precedenti grandi snodi delle nostre civiltà, in particolare quella occidentale: scrittura, stampa, metropoli, mass media della riproducibilità tecnica. Sappiamo che non è facile tirare le somme su quanto gli investimenti per le tecnologie abbiano davvero fruttato per il genere umano. Basta spostare il punto di osservazione da cui valutare questi processi – e ora questo ultimo che ci sta davanti agli occhi – per accorgersi che tuttavia il nostro progresso vive comunque di una «amputazione». Che esso è violento. Tutt’altro che pacifico. In ogni caso frutto di una sovranità asimmetrica rispetto ai suoi sudditi. L’amputazione a cui mi riferisco può essere quella che ora si prendono a carico le innovazioni introdotte per soccorrere i disabili?

    Per rispondere, non basta contestare il soggetto narratore (egemone) dello sviluppo tecnologico e ora – al presente – il destinatario di questa ultima e clamorosa svolta della modernità. Contestazioni di questo genere non sono mancate nel corso della storia passata, così come non mancano nella storia presente. Per il passato: il punto di vista di classe dei movimenti operai; quello di genere dei neri, delle donne, dei giovani e dei gay. Per il presente: i movimenti no-global, le etiche hackers. Tutte insorgenze di varia natura, motivate dai soprusi vissuti sopra la propria pelle e da visioni del mondo tese a cancellare o quantomeno addolcire tali soprusi. Tuttavia non è difficile ammettere che i soggetti di queste insorgenze lottano per la propria emancipazione e integrazione, ma praticano uno scontro politico sul possesso delle tecnologie – sulla loro gestione, la loro distribuzione, il loro uso, i loro contenuti – assai più che sulla propria specifica natura, sul loro significato metaforico e reale riguardo al mondo, al modo d’essere al mondo, insomma sulla loro possibilità di trasformare la qualità delle relazioni umane.

    Il problema da discutere è se l’introduzione sul mercato di tecnologie wireless per i disabili non possa allora costituire una torsione dei conflitti di potere proprio in tal senso. Cambiare il territorio dei conflitti, potremmo dire, se diamo a territorio il senso di esperienza vissuta dentro una comune piattaforma espressiva. In questo senso le barriere vissute dai disabili sino a oggi sono la dimostrazione della lunga durata di piani comunicativi esclusivi e non inclusivi. Di territori, dunque, in cui l’abitare è diviso tra cittadini e barbari, esclusi; spaccato tra consumatori e esseri umani ancora non abilitati a consumare, produrre, essere mondo. L’innovazione wireless può mettere finalmente in relazione queste diverse estensioni corporee. Ma a patto di individuare i contenuti giusti. Il medium giusto.

    Di queste innovazioni – si può dirle «umanitarie» proprio per gettare anche su di loro l’inquieta ombra che questo aggettivo sta oggi stendendo sul genere umano a opera della globalizzazione di guerra – non si parla molto. Quando se ne parla, ci trovano distratti. Se non siamo distratti, siamo impreparati, sprovvisti della capacità di valutarne il senso, propensi a interpretarle immediatamente dal nostro punto di vista: un «noi», una «soggettività di tipo «maggioritario», poiché i disabili sono una oggettiva minoranza, una entità fisica da «curare» ma di nessun peso specifico in termini di «potere» (è anche, più in generale, il dramma della democrazia, la sua ambiguità tra qualità e quantità, il fatto di non riuscire a risolvere il conflitto tra diversi se non con la formula dell’interesse generale e con il peso numerico dei voti o con la falsa coscienza dell’assistenzialismo).

    Tecnologie per disabili: ho usato spudoratamente questo termine di identificazione, proprio perché esso è «ingiusto», non appropriato, discriminatorio, respingente, razzista. Ma al tempo stesso rivela l’impotenza assoluta del lessico di cui disponiamo di fronte a esseri umani che, non godendo di ciò che il mondo «civile» definisce abile, vengono nominati, socialmente contraddistinti, per difetto. Persona non-abile: come se di un gatto si dicesse un non-leone; di una donna un non-uomo, di un essere umano un non-divino o rovesciando la prospettiva un non-animale. Tutti queste soluzioni verbali dicono tuttavia qualcosa che in effetti accade anche disponendo di parole adeguate: dicendo gatto, donna e uomo, ma avendo in mente leone, uomo e dio o animale, cediamo a identificazioni fondate su un preciso imprinting culturale: forza versus debolezza. Ma la violenza che nella più parte dei casi riusciamo a censurare, nei confronti del disabile non trova freno persino quando il pensiero o il desiderio non vorrebbero.

    L’impotenza del nostro vocabolario rivela una rimozione di lunghissimo periodo, che affonda le sue radici nella nascita stessa delle parole, prima ancora della scrittura e della modernità, della sua tradizione «forte», dedita ai valori della salute, efficienza, abilità, bellezza. Ed esce ancora più allo scoperto quando si tentano parafrasi pur meritorie nelle loro intenzioni come «diversabile» o persona con «diversabilità.

    Lo sforzo compiuto – pur grande, se le si confronta con il truce «handicappato» – non riesce a nascondere una nostra tara antropologica, brutalmente vicina alle leggi istintive per cui nel mondo animale il nato disabile viene soppresso o lasciato morire. Noi – che non siamo animali – abbiamo il linguaggio e quindi lo priviamo del nome. I colti si compiacciono della figura dell’altro da sé senza tuttavia chiarire che la reciprocità dritto/rovescio, positivo/negativo – di cui questa figura dicotomica si maschera – certo non può essere usata con soddisfazione del disabile, chiunque delle due parti la pronunci, noi per lui o lui per noi. Siamo qui di fronte a una verità dura da accettare, ma talmente tragica da meritare che – al posto della «commedia umana» di cui sino a oggi il progresso tecnologico si è travestito – tale verità sia finalmente messa al centro dei modi in cui operano gli apparati di ideazione, sperimentazione, distribuzione e consumo dei prodotti wireless.

    Questi prodotti non possono essere concepiti per due mercati distinti, per il grande target dei sani e il piccolo target dei malati, ribadendo così la divisione originaria tra forti e deboli, tra abbienti di società e diseredati di umanità. E penso che al superamento di queste barriere stia operando la sperimentazione dal vivo e dal basso della telefonia mobile, piuttosto che le culture del design e del marketing tecnologico.

    Alberto Abruzzese è professore ordinario di sociologia delle comunicazioni di massa alla Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università «La Sapienza» di Roma.

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