Mesi in mare mi hanno preparata al distanziamento sociale

Le mie esperienze, tra le insidie dei pirati nell’Oceano Indiano, mi hanno aiutato quando è iniziata la solitudine legata all’isolamento sociale provocato del coronavirus.

di Rose George

Dieci anni fa sono fuggita in mare. Il mio patrigno, che soffriva di demenza aggressiva, era stato ricoverato in una casa di cura e io avevo un libro da scrivere. Una volta sicura che mia madre stesse in una situazione sicura, sono partita per un lungo viaggio di 9.288 miglia nautiche su una nave portacontainer, la Maersk Kendal.

Il tragitto dall’Europa all’Asia avrebbe richiesto cinque settimane e sarei stata l’unica passeggera. Non si trattava di una nave da crociera: non ci sarebbero stati intrattenimenti organizzati, ristoranti eleganti o cinema di bordo. E nel 2010, non c’erano Wi-Fi, niente TV e solo e-mail inviate una volta al giorno tramite l’account del capitano, oltre a un costoso telefono satellitare che avrei potuto utilizzare una volta per verificare che mia madre stesse bene. I miei amici mi chiedevano cosa avrei fatto, come avrei riempito tutto quel tempo. 

Oggi sono chiusa in casa mia a causa del coronavirus. E’ la seconda volta che la mia libertà è veramente limitata. Forse la prima esperienza mi ha allenato per la seconda? I miei amici pensavano che infiniti giorni in mare significassero inevitabilmente solitudine e isolamento; io ritenevo che significasse fuga. 

Avevo portato con me dei libri e avevo del lavoro da fare. Inoltre, avevo compagnia. A bordo c’erano 21 membri dell’equipaggio, anche se non sapevo come mi avrebbero accettato, né se mi sarei sentita al sicuro. Il primo giorno è iniziato nel modo peggiore: rimasta sola per ore, ho vagato per la nave, chiedendomi dove fossero tutti gli altri. Il freddo benvenuto è stato confermato dalla cena, dove nessuno mi ha rivolto la parola. I miei tentativi di conversazione sono arenati come una balena spiaggiata e sono tornata nella mia cabina in uno stato di profondo disagio. Se fosse continuata così, non ero sicura di durare una settimana.

Nel corso della storia, molti marinai sono impazziti in mare. Anche oggi, 2.000 marittimi muoiono o vengono uccisi ogni anno e il numero di coloro che si suicidano non è chiaro. Rispetto ad altre, questa era una buona nave, con una piccola biblioteca (per lo più libri di fantascienza), una piccola palestra con tapis roulant, bici e vogatore, e due saloni con TV attrezzata, Wii e karaoke. Ma ciò che mancava erano luoghi per socializzare. 

Non c’erano bar e alcolici. Un canestro da basket sul ponte a poppa era inutilizzato; un barbecue arrugginito giaceva sotto i contenitori refrigerati. La minuscola piscina era vuota da anni. Dopo cena, l’equipaggio si ritirava nelle rispettive cabine. Le sale rimanevano per lo più vuote: solo una volta ho sentito qualche karaoke delle canzoni dei Journey risuonare per le scale. L’equipaggio aveva due cose: laptop e solitudine. 

Le persone che non hanno bisogno di contatto sono rare. Predilegiamo la compagnia: la solitudine e l’isolamento sociale producono tassi più elevati di patologie e mortalità. Ricerche recenti suggeriscono che l’isolamento sociale aumenta le probabilità di morte prematura di quasi il 30 per cento e vivere da solo le porta al 32 per cento. 

Una nave era un posto insolito: forse solo le astronavi e i sottomarini hanno caratteristiche simili, in quanto servono allo stesso tempo come casa, lavoro e spazio per il tempo libero. Ma anche ora siamo tutti bloccati in uno spazio che svolge più funzioni, con raro sollievo; uno spazio che, non importa quanto grande, si restringe ogni giorno che passa. 

A bordo, all’inizio, ero irrequieta. Mi mancava Internet, l’immediatezza delle sue risposte e la connessione. Quando entravamo in un porto, mi precipitavo a terra non solo per fare acquisti, ma anche semplicemente per essere altrove, per stare su una superficie che non si muovesse. Alla terza settimana ero diventata un’altra persona: mi importava più delle carte nautiche che delle mie e-mail. 

Alla fine ho stretto amicizia. Il freddo capitano che avevo incontrato al momento del mio arrivo è stato sostituito da una persona piacevole e loquace con cui sono ancora amica. A volte rimanevamo sulle ali del ponte, fuori dalla timoneria, solo per guardare il mare. Non c’era altro che acqua, e questo andava bene. 

Ho accettato con serenità questa vita confinata. Ma sapevo che era per un periodo limitato. Non avevo la responsabilità del lavoro estenuante dell’equipaggio, né i lunghi orari degli ufficiali, né i loro contratti di mese in mese. A causa della natura delle navi moderne, in cui gli equipaggi vengono costantemente cambiati, è facile sperimentare l’isolamento pur stando in compagnia. Le relazioni sociali dei marittimi, hanno scritto gli accademici, “sono vissute come una serie di incontri discontinui”. 

L’equipaggio filippino ha definito questo lavoro una “prigione stipendiata”. L’isolamento, sociale o fisico, mette a dura prova l’organismo. Aumenta i livelli di cortisolo e porta a stati di infiammazione cronica, che è in stretto collegamento con problemi cardiaci e cancro. La nave ha cambiato il mio corpo, ma è stato il battito implacabile del motore di notte che mi ha scosso la mente. 

Il periodo più difficile è stata la settimana di attraversamento dell’Oceano Indiano. A causa dei pirati, non potevo più camminare sul ponte e tutte le finestre avevano persiane oscuranti di notte. Improvvisamente mi mancava l’aria fresca e la libertà di aprire una porta e di uscire, anche se fuori c’era un ponte di metallo. 

Ora, qui in Gran Bretagna, ci è permesso di fare esercizio all’aperto una volta al giorno, ed è anche consentito prendersi cura degli orti. Ho tutti gli strumenti di comunicazione tecnologica a disposizione e sono molto più connessa di quanto fossi in mare. Ma la privazione mi colpisce duramente, e lo riconosco. 

Dopo diverse settimane in mare, mi mancava la terra. Non la terra delle banchine e il brutto porto di cemento, ma le colline e il selvaggio paese dello Yorkshire. Una natura selvaggia diversa dall’oceano. Camminare attraverso l’erica della brughiera, scivolare lungo il ghiaione scorrevole. Essere da qualche parte che non avesse lo stesso implacabile suono del motore di una nave. 

Molti anni dopo aver imparato a correre sul tapis roulant in palestra, sono diventata una runner. Fino alla settimana scorsa, avevo trascorso quasi tutti i weekend degli ultimi anni a correre in uno splendido paese selvaggio. Ora è proibito a quelli di noi che non vivono ai piedi della brughiera o delle montagne, e le persone che vanno in campagna a camminare sono ora sorvegliate da droni sinistri e vittime di duri attacchi sui social media.

La mia serenità è finora intatta, ma so che non durerà. Quando si esaurirà, ricorderò la mia lezione della settimana in balia dei pirati, quando la mia ora d’aria sul ponte era vietata e il tempo si allungava a dismisura. Ma finirà. Raggiungeremo un porto sicuro, sbarcherò, aprirò la porta e mi dirigerò verso le colline.

– Rose George è una scrittrice e giornalista britannica. È autrice di libri tra cui Nine Pints, Ninety Percent of Everything e The Big Necessity.

(rp)

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