Meno ricerca, meno produttività

Il cambiamento tecnologico favorisce la crescita nei paesi con maggiore trasparenza e meritocrazia e incontra resistenze formidabili nei luoghi in cui prevale il clientelismo: i casi dell’Italia e del Sud Europa.

di David Rotman

Qualche settimana fa, ho parlato del nuovo libro Jump-Starting America degli economisti del MIT Simon Johnson e Jonathan Gruber. A loro parere, il rallentamento della crescita economica degli Stati Uniti è un risultato diretto del declino del sostegno della ricerca da parte del governo negli ultimi decenni. È un argomento degno di grande attenzione, come dimostrato da un articolo del Wall Street Journal intitolato “Il governo degli Stati Uniti esorta a potenziare la tecnologia”.

Ma c’è una storia parallela che Johnson e Gruber hanno solo brevemente sfiorato nel loro libro: anche le aziende private abbandonarono la scienza di base nello stesso periodo. In un nuovo saggio di Ashish Arora della Duke’s Fuqua School of Business, l’economista e i suoi colleghi raccontano la fine della ricerca aziendale di base a partire dagli anni ’90 e il suo rapporto con la concomitante caduta della produttività economica.

La storia inizia con il grande boom della produttività e della crescita economica nei primi anni del XX secolo e negli anni del dopoguerra. L’innovazione era dominata da attori come il laboratorio di ricerca aziendale di GM, la R&S di IBM, la stazione sperimentale di DuPont e i Bell Labs. Quei giorni di gloria sono finiti da tempo. Una delle ultime resistenze rimanenti, il laboratorio di ricerca e sviluppo centrale di DuPont, che aveva dominato la ricerca chimica statunitense (si pensi al nylon, al kevlar e alle bioplastiche) sin dall’inizio del XX secolo, è stato chiuso nel 2016.

Il nuovo saggio di Arora si riallaccia a un lavoro precedente in cui erano spiegati i rischi che le aziende corrono, abbandonando la scienza di base. Indubbiamente, la decisione delle grandi aziende ha senso finanziario perché la ricerca è costosa e le ricompense sono spesso sfuggenti e imprevedibili. Si è così imposto un nuovo modello, prosegue Arora: le università hanno iniziato a fare ricerca, mentre le grandi aziende si sono concentrate sullo sviluppo e la commercializzazione, e spinout e startup grazie al capitale di rischio hanno cercato di tenere insieme i due diversi aspetti.

Ma questo modello si è trovato di fronte a un serio problema. Prima le grandi aziende erano particolarmente abili nell’usare le competenze scientifiche per risolvere problemi pratici e commerciali, specialmente in aree come la ricerca di base sui semiconduttori e la scoperta dei materiali, che richiedono grandi investimenti e competenze in sistemi complessi. Le startup basate sul capitale finanziario hanno invece scarso interesse verso queste aree e, come scrive Arora, “la conoscenza prodotta dalle università spesso non si presenta in una forma che può essere prontamente trasformata in nuovi beni e prodotti”.

È utile mettere insieme quanto detto da Johnson e Gruber e da Arora. Calcolare quanto la combinazione del diminuito interesse governativo e del mancato supporto aziendale alla ricerca di base abbia arrestato la crescita economica generale è diabolicamente difficile. In fin dei conti, questo è davvero il problema principale; gli economisti hanno provato e non sono riusciti a quantificare la ricaduta degli investimenti nella ricerca di base sulla produttività. Piuttosto, quello che appare evidente è quanto il rallentamento della produttività abbia seguito la diminuzione del sostegno alla ricerca di base.

Ma se gli Stati Uniti hanno un raffreddore, l’Italia ha la polmonite. Sono appena tornato da un breve viaggio a Bologna per un evento che celebrava i giovani innovatori italiani. Ero curioso di sapere perché il paese abbia subito un così sostenuto calo della produttività negli ultimi decenni. I numeri sono semplicemente brutali e di gran lunga peggiori rispetto ad altri paesi europei (pdf), in particolare per la produttività totale dei fattori (TFP), che misura il contributo dell’innovazione a un’economia. E ciò che è particolarmente sconcertante perché l’Italia si colloca relativamente in alto nella ricerca in Intelligenza Artificiale e progressi nell’automazione.

La migliore spiegazione che riesco a trovare è in un lavoro degli economisti italiani Luigi Zingales e Bruno Pellegrino. Nel loro studio i due economisti sostengono che la TFP italiana ha iniziato a calare nello stesso momento in cui la produttività negli Stati Uniti ha iniziato a salire alla fine degli anni Novanta, in piena rivoluzione informatica. Da allora la situazione non è più cambiata. In altre parole, l’Italia non è stata in grado di trasformare i progressi IT in crescita economica.

La loro conclusione è importante. A loro parere, il cambiamento tecnologico “promuoverà la crescita nei paesi con maggiore trasparenza e meritocrazia” e penalizzerà la crescita dei paesi in cui prevalgono irregolarità e clientelismo”. 

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