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    Media Lab per inventare il futuro

    di Alessandro Ovi

    Al passaggio dei suoi primi venti anni di vita, il Media Lab ripensa se stesso per proseguire e rinnovare i suoi grandi successi del passato.

    Un nuovo direttore, Frank Moss(che ci ha concesso una intervista riportata qui a fianco), una nuova importante sede progettata dall’architetto giapponese Fumihiko Maki per la quale si stanno iniziando i lavori. Crescerà a fianco del «vecchio» Wisner Building, anch’esso opera di un grande architetto, I. M. Pei, ben noto per gli spazi finalizzati allo scambio di informazioni tra suoi ricercatori. Il nuovo edificio di sei piani e 15.000 metri quadri, enfatizzerà l’importanza della collaborazione tra ricercatori di diverse discipline e una filosofia dell’innovazione che si adatti all’irrompere del nuovo mondo dei paesi emergenti.

    Ospiterà tra l’altro anche altri programmi di ricerca del MIT in «arti figurative» e architettura e progetti di ricerca finalizzati ai paesi in via di sviluppo.

    «Sarà una importante opportunità verso l’innovazione aperta per la quale il Media Lab è diventato famoso», ha detto Frank Moss al momento dell’annuncio dell’avvio dei lavori.

    Il Media Lab negli scorsi venti anni ha costruito il suo successo aprendo la strada a innovazioni già realizzate o in arrivo, quali l’inchiostro elettronico, i computer «indossabili», le protesi biorobotiche, il video olografico, le reti senza fili, i sensori portatili per il monitoraraggio delle malattie, i robot che imparano dalla gente, e ha dato vita a 60 start up. Dopo una breve crisi negli anni in cui lo scoppio della bolla delle .com aveva provocato una diminuzione dei fondi, oggi è di nuovo in gran forma.

    Ha una facoltà di 30 membri, qui a fianco elencati con i titoli del loro lavoro più significativo (invitiamo a leggere i loro interessantissimi profili sul sito www.media.mit.edu). Ha circa 250 studenti che lavorano nei suoi laboratori, dei quali ben 120 sono UROP (undergraduate research opportunity program), di età inferiore ai venti anni. Sono una risorsa molto importante in cui Moss vede una grande capacità di innovazione, che viene naturalmente dal basso, perché hanno la forza della «ingenuità», che li porta a superare le frontiere più avanzate di rottura con il passato. Per loro è più facile fare proprio il motto del Media Lab: «Il miglior modo di inventare il futuro è viverlo».

    Qui sono tutti convinti che non ci sia motivo di essere preoccupati delle nuove idee. Bisognerebbe esserlo di quelle vecchie.

    Il grosso del lavoro del Media Lab è organizzato in consorzi di sponsor:

    Comunicazioni per il Futuro che lavora su dinamiche industriali, opportunità tecnologiche e materie regolatorie, dal mondo dei telefoni a quello degli RFID.

    Elettronica di consumo, focalizzato su materiali innovativi e metodi di progettazione e produzione, nuovi sensori e attuatori, reti senza fili capaci di cooperare.

    Vita digitale che si occupa di sistemi di comunicazione agili che incorporano la capacità di comprendere i comportamenti in un mondo digitale, con interfacce in grado di cogliere parametri affettivi e biologici.

    Semplicità, focalizzato sullo sviluppo di tecniche di design con cui produrre oggetti facili da capire e da utilizzare.

    Le cose che pensano, il consorzio più grande del ML, orientato a inventare il futuro di oggetti di uso quotidiano nei quali viene inserito un certo livello di intelligenza grazie a sensori e capacità di elaborazione dati in rete. Si crea un ponte tra il mondo fisico e quello digitale. Dall’automobile che si adatta ai desideri di chi la guida e alle esigenze della città, alle protesi che si collegano, capendolo, al sistema nervoso, ai robot che sanno leggere gli stati emotivi dall’osservazione di un volto.

    Il Media Lab ha dato vita anche a iniziative che per il loro valore hanno trovato una vita autonoma.

    Una è One Laptop per Child (OLPC), diretto da Nicholas Negroponte, del quale si è ampiamente trattato nel numero scorso di «Technology Review», edizione italiana.

    L’altro è il Center for Bits and Atoms (CBA, solo formalmente ancora interno a ML) diretto da Neil Gershenfeld. CBA è un programma che si dirama dal Media Lab ad altri importanti dipartimenti del MIT, quali Fisica, Chimica, Scienze del Computer, Scienze Cognitive con ricerche che stanno al confine tra le scienze fisiche e quelle cognitive. Il suo obiettivo è quello di spaziare dai meccanismi di interazione molecolare per «digitalizzare» i processi di fabbricazione (in modo analogo a quanto si è fatto per la digitalizzazione della comunicazione), fino agli studi dei principi matematici necessari a costruire sistemi molto complessi.

    I membri della Facoltà

    -Dan Ariely: e-Rationality

    -Walter Bender: Editoria elettronica

    -Michael Bove: Comunicazione tramite gli oggetti

    -ED Boyden: Neuroingegneria e neuromedia

    -Cynthia Brezael: Robot e vita

    -Chris Csiksszentmialyi: Cultura e arte nel digitale

    -Glorianna Davenport: La fabbrica dei media

    -Judith Donath: Media capaci di essere sociali

    -Neil Gershenfeld: Fisica e media

    -Hugh Herr: iomeccatronica

    -Henry Holtzmann: Laboratorio di fisica del linguaggio

    -Hiroshi Isihii: Media tangibili

    -Joseph Jacobson: Macchine molecolari

    -Kent Larson: Posti che cambiano (e che rispondono alla complessità della vita)

    -Henry Liberman: Agenti software

    -Andy Lippman: Comunicazioni virali

    -Tod Macover: L’opera del futuro

    -Pattie Maes: ntelligenza dell’ambiente

    -Marvin Minsky: La società della mente

    -William Mitchell: Le città intelligenti

    -Joe Paradiso: Ambienti in grado di rispondere

    -Seymour Papert: Il futuro dell’insegnamento

    -Alex Pentland: Dinamiche umane per le macchine

    -Rosalind Picard: Computer che capiscono le emozioni

    -David Reed: Comunicazioni virali

    -Michael Resnick: Un «asilo infantile» lungo una vita

    -Deb Roy: Macchine cognitive

    -Chris Schmsndt: Interfacce vocali

    -Ted Selker: Computer consci dell’ambiente

    -Barry Bercos: Musica, mente e macchine

    Per dare una idea del tipo di progetti che caratterizzano la attività del Media Lab, ne descriviamo qui quattro di particolare complessità e interesse.

    City Car di Bill Michell. Immaginate una piccola auto, due posti, confortevole, elettrica, che quando si parcheggia si piega in due, si incastra in quella che la ha preceduta come succede per i carrelli di un supermercato e, mentre è ferma, ricarica le batterie, alimentata, oltre che dalla rete, anche da pannelli solari sul tetto del parcheggio. Un’auto che è di tutti, ma che diventa tua quando infili in un suo apposito lettore la tua carta di credito e lei si sgancia dalla fila, si riapre, acquista le tue configurazioni di guida, le tue preferenze di prestazioni e perfino, se vuoi, il tuo colore preferito e diventa la tua auto da città fino a che non ne avrai più bisogno e non la rimetterai nello stesso o in un altro parcheggio, vicino a una stazione di treni, di metropolitana, o a un parcheggio periferico di auto tradizionali. Un’auto che non ha blocco motore, trasmissione e cambio, perché ogni ruota ha al suo interno un sistema elettrico di propulsione indipendente, una specie di ruota robot, grazie alle quali, indipendenti tra loro, l’auto può girare su se stessa di 360 gradi, o muoversi anche di lato.

    Si tratta del sistema di trasporto urbano allo stesso tempo personale e condiviso più innovativo oggi esistente, e a studiarlo è il gruppo guidato da Bill Michell, già dean della Scuola di Architettura del MIT, composto da giovani esperti di elettronica, di automobili, di visual art, di robotica, entusiasti di esplorare le vie del nuovo in un settore antico. E il classico tipo di innovazione pazza del Media Lab, che pare un’avventura impossibile, ma forse non meno impossibile delle reti di collegamento senza fili, dei robot che imparano dagli umani

    Biomeccatronica di Hugh Herr. Hugh amava scalare montagne in condizioni difficili. Un giorno rimase intrappolato in una tempesta di neve. L’amico che era con lui morì e lui perse entrambe le gambe dal ginocchio in giù per congelamento. Oggi Hugh scala di nuovo montagne in condizioni estreme grazie agli arti biomeccatronici che ha progettato e costruito al Media Lab. Biomeccatronici nel senso che non solo sono costruiti in metallo e includono servomeccanismi comandati elettronicamente, ma anche interfacce col sistema nervoso di chi le «indossa (o le vive)» che gli permettono di sentirle come sue e di comandarle come gambe vere.

    Si tratta di un esempio tipico della innovazione del Media Lab che nasce mettendo assieme competenze provenienti dai settori più diversi. Dice Herr: «Negli scorsi anni si sono sviluppate, sono maturate, alcune aree molto importanti per un miglioramento sostanziale del funzionamento delle protesi: l’ingegneria dei tessuti biologici, la robotica. Stiamo cominciando a rendere indefinito il confine tra macchine ed esseri umani, e ciò porterà a effetti clinici molto importanti su disabili di ogni tipo».

    L’ultimo dei successi di Herr è un ginocchio artificiale, che utilizza tecniche di adattamento al corpo umano, in grado di integrare quasi perfettamente il funzionamento della macchina con quello dell’organismo vivente: un vero e proprio «bioibrido».

    Meccanica, elettronica, neurologia collaborano nel laboratorio di Hugh e i fondi non mancano perché oggi sono tristemente sostenuti dalla drammatica crescita di mutilati gravi provenienti dalla guerra in Iraq.

    Il Robot che si può abbracciare. Fin dai tempi di Guerre Stellari di Lucas, Cynthia Brezael aveva sognato di sviluppare robot in grado di fare compagnia agli umani. Non solo umanoidi in grado di prestare servizi domestici, ma essere in qualche modo capaci di mostrare comportamenti affettivi.

    Il più recente progetto di Cynthia su questa linea è un orsacchiotto attualmente progettato per pazienti in ospedale, in grado di tenerli sotto controllo con microcamere, microfoni e sensori di vario tipo e di tenere loro compagnia.

    La novità tecnologica coinvolta è una pelle sensibile che misura temperatura, forza e campi elettromagnetici che permette all’orsacchiotto di rispondere in modo appropriato a stimoli vari. Tu lo abbracci e lui ti abbraccia. Lo metti sul tavolino lontano da te e lui per un po’ cerca di farsi notare.

    C’è anche al MIT chi pensa che questo dare alla gente l’illusione di una relazione affettiva che non c’è sia una strada da percorrere con attenzione, e anche con una certa preoccupazione. Ma questo esplorare senza paura frontiere nuove è la vera caratteristica del Media Lab. Senza tener conto che dalla ricerca come quella per il robot abbracciabile possono venire stimoli per applicazioni completamente diverse.

    La lettura delle espressioni di un viso per collegarla a sentimenti può servire a dare informazioni utili a interagire correttamente con l’uomo all’orsacchiotto di Cynthia, ma può anche insegnare a un bambino autistico modi di comunicare con il mondo esterno, come sta cercando di fare Rana el Kalioubi con il suo sistema ESP (emotional social intelligence prosthesis).

    Death and the Powers. La nuova «invenzione» di Tod Macover: al centro del palcoscenico, pendente dal soffitto come un gigantesco lampadario, ci sarà l’Iperstrumento. Fatto come una gigantesca farfalla con tre ali che tendono corde in grado di emettere una enorme quantità di suoni diversi, nuovi e antichi, quando vengono fatte vibrare da campi elettromagnetici, è la principale sorgente della musica che si accompagna ad un piccolo gruppo di cinque strumenti a corda, tre a fiato, uno a percussione e una tastiera.

    Tod riassume in questa sua realizzazione estremamente innovativa ed evocativa, la cui prima è prevista a Montecarlo nel Novembre del 2008, le sperimentazioni precedenti di Brain Opera e di Child Synphony.

    Nella prima erano stati gli spettatori a modulare i suoni con i loro movimenti ripresi da telecamere e sensori, nella seconda i bambini, con semplici strumenti elettronici a interagire liberamente con l’orchestra.

    In questa ultima opera Tod non solo affronta il tema del dare contenuti elettronici alle voci dei protagonisti, ma anche quello di mettere in condizione il direttore di controllare il bilanciamento complessivo di voci e suoni che, pur prodotti da reali vibrazioni di corde e strumenti, possono essere controllati come fossero elettronici.

    L’obiettivo di questo straordinario sistema di produzione di musica è quello di realizzare con un numero molto limitato di strumenti sia un suono di qualità gradevolissima con una proiezione tridimensionale e avvolgente dentro tutto il teatro, sia un delicato sussurro nell’orecchio di ciascun ascoltatore.

    La architettura robotica è stata progettata da Cynthia Gebrael e la sceneggiatura da Alex McDowell, un grande di Hollywood (The Terminal e Chocolate Factory).

    La leggerezza di tutto l’impianto serve a rendere facilmente e trasportabile l’opera e a renderla quindi accessibile per numeri molto elevati di spettatori in posti diversi.

    Non si può concludere questo flesh sul Media Lab alla svolta dei vent’anni, senza ricordare un personaggio che sta giocando assieme a Moss un ruolo molto importante: John Maeda con il suo grande senso della semplicità. La semplicità come continua ricerca di togliersi d’intorno tutto ciò che non serve a fare e pensare. Un esperto di design, di computer science e perfino di moda, al punto da essere al centro di un progetto per inventare le tecnologie della moda con i più grandi stilisti di Milano.

    Un altro di quei personaggi dotato di quella grande creatività distruttiva che ha fatto tanto grande e tanto discusso il Media Lab. «Io cambio continuamente», dice Maeda, «non mi piace essere etichettato come qualche cosa, come un certo stile, e così continuo a distruggere quello che ho fatto, spesso anche due volte all’anno»

    Questo in fondo è il vero spirito del Media Lab, quello di Negroponte, quello di Moss, quello di sempre.

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