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I ricercatori e le riviste che pubblicano articoli scientifici, faticano a riconoscere i propri errori. A detrimento delle rispettive discipline e della società stessa.

di Jon Cohen

Qualche mese fa il “Journal of Biological Chemistry” ritrattò ufficialmente quattro articoli firmati dallo stesso ricercatore specializzato nello studio delle sostanze chimiche che nei sistemi immunitari sono connesse con tumori e altre malattie autoimmuni. La spiegazione fornita dalla rivista fu un laconico: “articolo ritirato dagli autori”. Nel suo Retraction Watch, un blog inaugurato nell’agosto 2010, Ivan Oransky commenta: «Questo aiuta senz’altro a fare chiarezza».

Insieme ad Adam Marcus, che lavora con lui per mettere in evidenza gli errori apparsi nelle pubblicazioni scientifiche, Oransky guida un gruppo sempre più numeroso di critici che sostengono sia di importanza fondamentale ammettere e chiarire questo tipo di errori, specie considerando la lunga tradizione scientifica della citazione degli articoli di altri autori. I due blogger sottolineano che, in particolare per la ricerca in campo biomedico, ammettere i propri sbagli può davvero essere una questione di vita o di morte.

Marcus, giornalista scientifico e caporedattore di “Anesthesiology News”, e Oransky, medico e direttore editoriale di “Reuters Health”, s’industriano a denunciare quei comportamenti scientifici che oscillano tra il raffazzonato e l’assurdo, fino al fuorviante o al palesemente illegale. Nel primo commento del loro blog spiegano che i casi di ritrattazione rientrano in un’ampia casistica: possono infatti derivare da un errore in buona fede commesso dai ricercatori, o riferirsi a un vero e proprio tentativo di frode. Ma il grosso delle ritrattazioni coinvolge errori classificabili a mezza strada tra questi due estremi e i due critici sostengono, in modo piuttosto convincente, che quasi tutti «finiscono per perdurare, nascosti nelle pieghe di Medline e altri archivi elettronici». Molte pubblicazioni non adottano una esplicita politica di ritrattazione e quelle che lo fanno sono solite segnalare gli errori parecchio tempo dopo la pubblicazione originale.

L’attuale detentore del record, l’anestesiologo tedesco Joachim Boldt, si è visto rimuovere 80 articoli dalle redazioni di 18 diverse pubblicazioni a causa della mancata approvazione – necessaria prima di effettuare una sperimentazione sull’uomo – da parte di un comitato ufficiale di revisori. Boldt è stato sollevato dal suo incarico di primario dell’Ospedale di Ludwigshafen, in Renania, dopo essere stato accusato da diverse fonti di avere pubblicato uno studio basato su una sperimentazione farmaceutica che in realtà non ha mai avuto luogo. Anil Potti, ex oncologo della Duke University, che aveva fraudolentemente sostenuto in una sua richiesta di finanziamento di essere titolare di una borsa di studio Rhodes, si è visto ritirare 7 dei suoi articoli a causa dell’impossibilità, da parte del suo stesso gruppo di ricerca, di replicarne i risultati.

Le statistiche indicano che nel corso dell’ultimo decennio le ritrattazioni sono aumentate a dismisura. Neil Saunders, bioinformatico statistico dell’agenzia nazionale scientifica australiana, ha sviluppato un’applicazione Web che tiene traccia delle ritrattazioni riguardanti il principale data base di pubblicazioni biomediche, PubMed. Dal 1977 il numero complessivo di pubblicazioni è aumentato di circa quattro volte, ma il numero di ritrattazioni cresce di un fattore 30. La crescita può derivare da un incremento del grado di autocontrollo da parte delle riviste o del numero di frodi, da una maggiore consapevolezza da parte del pubblico, dall’influenza dei social network, dall’uso di software anti-plagio, o da una combinazione di tutti questi fattori. Ma anche quando si arriva a leggere un avviso in tal senso – come Retraction Watch dimostra ampiamente – non è semplice capire perché si sia verificata una ritrattazione.

La scarsa trasparenza di una pubblicazione come il “Journal of Biological Chemistry” non è affatto un caso isolato. Nel 2009, il “Journal of the American Chemical Society” ha ritrattato un articolo con questa ridicola osservazione: «Il manoscritto è stato ritirato per motivi scientifici». Quando Adam Marcus ha telefonato alla redazione di “Annals of Thoracic Surgery” per informarsi su una ritrattazione descritta in termini altrettanto vaghi, il redattore, L. Henry Edmunds Jr. gli ha risposto: «Non sono affari suoi».

Invece lo sono, e come: il denaro pubblico finanzia una notevole quantità di lavori scientifici. Non bastasse, gli errori in questo campo possono recare parecchi danni. Un articolo apparso il 17 maggio sull’edizione online del “Journal of Medical Ethics” ha preso in esame 180 articoli ritrattati dagli editori in un arco di tempo che va dal 2000 al 2010. L’autore dello studio, R. Grant Steen, biologo e proprietario di una società di consulenza per la comunicazione in medicina con sede a Chapel Hill in North Carolina, ha scoperto che gli articoli fallaci hanno coinvolto un totale di 9.189 pazienti sottoposti a trattamenti medici. Gli studi ritrattati sono stati citati più di cinquemila volte, oltre un terzo delle quali a ritrattazione avvenuta, e i susseguenti studi hanno coinvolto altri 70.501 pazienti. Nell’articolo vengono illustrati in dettaglio gli specifici rischi che ne sarebbero potuti derivare, tra cui un livello insufficiente di medicazioni praticate su pazienti affetti da dolori post-operatori, interventi chirurgici non necessari su pazienti oncologici e trattamenti per patologie renali, che avrebbe potuto avere un impatto negativo sulle prospettive cliniche dei pazienti.

In una inchiesta indipendente pubblicata da Steen sullo stesso giornale, sono state analizzate le motivazioni alla base del ritiro di 742 articoli, sempre nell’arco del precedente decennio. Quasi nel 75 per cento dei casi le ritrattazioni derivano da errori di natura scientifica, questioni etiche o plagio, mentre il resto è dovuto alla fabbricazione o alla falsificazione dei dati, ossia una vera e propria frode. L’analisi effettuata da Steen mostra che l’incidenza delle ritrattazioni dovute a errori e frodi è in forte aumento: il numero di articoli ritirati perché fraudolenti è passato dai 2 del 2000 ai 51 del 2009 e il numero di lavori ritirati ogni anno a causa di errori di natura scientifica è cresciuto da 1 a 35 nello stesso periodo. Steen suggerisce che, forse, questo aumento potrebbe riflettere un atteggiamento più rigoroso delle pratiche di auto-correzione seguite da parte delle pubblicazioni.

Le riviste scientifiche non sempre si attengono al massimo del rigore nello specificare le proprie politiche in materia di ritrattazione. Uno studio pubblicato nel 2004 dal “Journal of the Medical Library Association” aveva preso in esame 122 “importanti” pubblicazioni biomediche a proposito delle eventuali procedure di ritrattazione. Michael C. Atlas, bibliotecario presso la University of Lousiville, nel Kentucky, ha per prima cosa verificato se una pubblicazione menzionasse una politica di ritrattazione nelle istruzioni fornite on line ai potenziali autori. Ciò è avvenuto in soli quattro casi. Atlas ha quindi inviato una mail ai redattori di tutte le pubblicazioni restanti, chiedendo una copia delle rispettive politiche eventualmente adottate. Nel computo finale 76 redattori – pari al 78 per cento dei rispondenti – hanno riferito che le loro pubblicazioni non seguivano una esplicita procedura.

Non disporre di una politica di ritrattazione non significa ovviamente nutrire una sfacciata indifferenza nei confronti della verità scientifica. Alcune pubblicazioni ribadiscono, per esempio, la loro adesione a una linea guida standard. E altre difendono l’assenza di politiche rigorose e tempestive, sostenendo che spesso ritrattare risulta alquanto complicato.

Prendiamo per esempio la rivista “Science”, con la quale collaboro in veste di corrispondente. Ultimamente sono andato a intervistare il caporedattore Bruce Alberts a proposito di un articolo che la rivista aveva pubblicato nel 2009. In quello studio veniva stabilito un collegamento tra un retrovirus murino e la sindrome da affaticamento cronico. Al momento del mio contatto con Alberts, oltre dieci gruppi indipendenti avevano riferito di non essere stati in grado di riprodurre gli stessi risultati e si stava facendo sempre più strada il sospetto che i campioni utilizzati fossero stati contaminati. Pur non essendoci alcuna prova concreta in relazione a una contaminazione o a un errore, Alberts aveva chiesto agli autori dell’articolo se avessero intenzione di ritrattare. Molti di loro si erano detti indignati, ritenendo che una mossa del genere fosse prematura. Alberts si accontentò di pubblicare una expression of concern, una nota redazionale che esprimeva le preoccupazioni della rivista.

Quando gli chiesi dove giacesse il confine tra richiedere una ritrattazione e lasciare che uno studio languisca nel limbo del sospetto, la sua risposta è stata: «è molto dura». In assenza di un evidente imbroglio, di un plagio o di un marchiano errore, i redattori devono prendere da soli la difficile decisione di una sentenza che potrebbe stroncare sul nascere una promettente linea di ricerca o una brillante carriera. In quel caso, aggiungendo un ulteriore strato di penombra e complessità, Alberts ha optato successivamente per una poco canonica “ritrattazione parziale”, dopo che uno dei laboratori che avevano contribuito allo studio, aveva scoperto che una contaminazione c’era stata.

Considerando che nella maggior parte dei casi tutto lascia credere che le ritrattazioni non derivino da una effettiva manipolazione di dati, la riluttanza che molti nutrono nei confronti di una semplice ammissione di colpa non è la strategia migliore. La cultura scientifica ha sempre avuto grande rispetto nei confronti di coloro che mostrano di avere una certa flessibilità davanti all’insorgenza di nuovi fatti, anche a costo di mettere in chiaro la propria negligenza o qualche errore pregresso. Commettere un errore è particolarmente facile in quelle attività scientifiche ad “alto rischio” che permettono di aprire orizzonti inaspettati ed è giusto incoraggiare gli scienziati ad affrontare questo rischio. Ma le pubblicazioni scientifiche devono anche dare prova di maggiore disponibilità nell’affrontare l’inevitabile margine di errore attraverso la massima trasparenza e nel riconoscere che anche una rapida ritrattazione è parte integrante del processo comunicativo.