La storia delle mappe, geografiche, territoriali, urbanistiche, sta diventando una sorta di genere letterario che ne moltiplica i punti di vista, cogliendone motivazioni e significati sempre diversi: una sorta di cartina di tornasole per associare tempo e spazio, storia e geografia, in una dinamica rappresentazione delle strade, terrestri e celesti, che gli uomini hanno aperto e richiuso.
di Giordano Ventura
Da quando, nel 1881, Robert Louis Stevenson pubblicò a puntate L’isola del tesoro, in ogni isola si può cercare e trovare un tesoro, perché, se è vero come scriveva John Donne che “nessun uomo è un’isola”, è anche vero che ogni uomo ha bisogno della sua isola, della sua possibilità di confrontarsi con se stesso dopo essersi confrontato con gli altri, per riconoscere il tesoro che è in lui.
Per altro, come non c’è isola senza un tesoro, non c’è tesoro senza una mappa che orienti la ricerca e soprattutto la finalizzi. Una mappa, infatti, in ognuna delle sue implementazioni storiche e geografiche, rappresenta una visione del mondo basata su una specifica intenzionalità: quella di esplorare il vicino o il lontano; quella di conoscere e di disconoscere le diversità; quella, in definitiva, di perdersi o di ritrovarsi.
In questo senso il nuovo libro Sulle mappe di Simon Garfield (Ponte alle Grazie 2016) già nel sottotitolo, Il mondo come lo disegniamo, esplicita la dimensione soggettiva, singolare o plurale, in cui va interpretata, e brillantemente narrata, quella “mappatura” che, al contrario, pretenderebbe di oggettivare le idee su cui da sempre, e spesso per sentito dire, le diverse civiltà hanno configurato i rapporti tra il dentro e il fuori del proprio mondo.
Di questa portata al tempo stesso ideologica e psicologica, oltre che della molteplicità di interessi a cui si ispira Garfield, rende testimonianza il capitolo dedicato alla celeberrima Mappa Mundi di Hereford, che risale al 1290 e che rappresenta «la mentalità e le aspettative dell’umanità medioevale».
La mappa «si proponeva come guida alla vita cristiana per una platea composta in gran parte da analfabeti. In essa si mescolano senza imbarazzi la geografia del mondo terreno e l’ideologia dell’ultramondano. La sommità della mappa ospita una vivida rappresentazione della fine del mondo, un Giudizio universale nel quale da un lato Cristo e gli angeli indicano la via del Paradiso e dall’altro il demonio e un drago radunano le anime verso un’altra destinazione».
Ma la Mappa di Hereford racconta anche un’altra storia, o quanto meno Garfield gliela fa raccontare: la storia della compravendita delle cose antiche, che, intorno alle ipotesi di alienazione di testimonianze così preziose, contrappone gli interessi locali a quelli del mercato globale.
Insomma, dalle più antiche alle più recenti, passando per i canali di Marte e includendo anche quelle delle moderne metropolitane, la storia delle mappe è soprattutto una storia di luoghi significativi che invitano uomini e donne a muoversi per trasformare un modo di essere, qui e ora, in un modo di divenire, là e allora.
Con un non trascurabile interrogativo in conclusione: cosa succederà nel mondo delle grandi reti, dove non siamo più noi a mappare il mondo, ma è il mondo tecnologicamente trasformato a mapparci, «ovunque, istante per istante»?
Nello scontro tra le mappe di Google e le mappe di Apple si esprime qualcosa di più di un enorme affare economico: si esprime il destino dell’antica alternativa tra la possibilità di perdersi e quella di ritrovarsi.