Come per la Misery del drammatico film del 1990, diretto da Rob Reiner, anche sullo scienziato Ettore Majorana, scomparso nel 1938, le narrazioni non cessano di moltiplicarsi, allontanandosi progressivamente dall’attendibilità psicologica e storica.
di Giordano Ventura
La fascetta editoriale grida forte, nello stile dei più gettonati racconti mystery: «Finalmente risolto uno dei più misteriosi gialli italiani». Il “giallo italiano” sarebbe quello della scomparsa di Ettore Majorana, il celebre scienziato siciliano scomparso nella notte tra il 27 e il 28 marzo 1938, nel corso di una traversata da Palermo a Napoli.
Sulla scomparsa di Majorana è nato un vero e proprio genere letterario, che ha preso le mosse dalla ipotesi di Leonardo Sciascia, secondo cui Majorana si sarebbe rifugiato in un monastero calabrese, per proseguire con la cosiddetta “ipotesi argentina” del fisico Erasmo Recami, il quale ne avrebbe rintracciato la presenza a Buenos Aires intorno agli anni Sessanta.
Non manca, nel riconcorrersi delle ricostruzioni più o meno fantasiose di una personalità certamente complessa e talvolta contraddittoria, la ipotesi politicamente più compromettente di una fuga in Germania, dove Majorana aveva soggiornato e studiato per alcuni mesi, nel 1933, e da cui aveva spedito a parenti e amici lettere che ne lasciavano intravedere qualche ambiguo interesse per quella che egli stesso definiva, senza altre valutazioni, come la “rivoluzione nazista”.
Alcune di queste ipotesi si elidono reciprocamente, altre sembrerebbero delineare una sorta di puzzle in cui le diverse tessere o ipotetici tragitti di viaggio disegnano un percorso coerente con quello di altre personalità scientifiche travolte dalle conseguenze della Seconda Guerra Mondiale: per esempio da Palermo o da Napoli in Germania, da dove avrebbe potuto emigrare in Argentina, in cui alcune testimonianze ne confermerebbero la presenza.
Da qui prende appunto le mosse La seconda vita di Majorana (Chiarelettere 2016), una incalzante e suggestiva inchiesta di Giuseppe Borello, Lorenzo Giroffi e Andrea Sceresini, i quali con tipico stile giornalistico ne perseguono le tracce in Sud America e soprattutto in Venezuela, sulla base di una sentenza della Procura della Repubblica di Roma, che ne avrebbe accertato la presenza nella città venezuelana di Valencia tra il 1955 e il 1959.
La “prova provata” consisterebbe in una fotografia che ritrae tal Francesco Fasani in compagnia di un signore di mezza età, conosciuto come Bini e, secondo alcuni accertamenti fisiognomici, piuttosto somigliante al “padre” di Majorana. Al “padre” forse, perché in realtà con il figlio Ettore non sembrano riscontrarsi particolari somiglianze somatiche, atteso che quelle psicologiche appaiono non solo del tutto improbabili, ma addirittura contrastanti con quanto si ricorda dello schivo e introverso scienziato italiano. Ma si sa: le somiglianze, soprattutto quelle famigliari, sono questioni molto soggettive, che riflettono aspettative e spesso proiezioni personali.
In verità, i tre giornalisti procedono per indizi piuttosto marginali e per “sentito dire”, tendendo progressivamente a parlare di Ettore Majorana parlando del signor Bini e finendo, inutilmente, per ricercarne le spoglie mortali in un piccolo e desolato cimitero della provincia venezuelana.
«Forse», concludono, «la sua parabola si è conclusa quaggiù», dove quel “forse” torna opportunamente a contemperare e in qualche modo a riportare allo stadio di partenza la iniziale certezza del “mistero finalmente risolto”.
In definitiva, Majorana non cesserà mai di sollecitare le più avventurose speculazioni, sia in campo scientifico, dove la sua influenza non è ancora venuta meno, sia in campo giornalistico e letterario, dove se ne continuerà a parlare, almeno sino a quando qualche eventuale documento lo riguarderà direttamente e non soltanto “per interposta persona”.
La ragione del nostro interesse risiede appunto in questa commistione tra scienza e cronaca: un motivo in più per riflettere su quanto ogni processo conoscitivo sia condizionato dagli idola fori, come Francis Bacon definiva le leggende metropolitane e le fluttuazioni della pubblica opinione, e soprattutto dalle logiche spettacolarizzanti dell’attuale mercato mediatico.