La cultura della crisi deve confrontarsi con la moltiplicazione di nuovi bisogni. Anche le istituzioni universitarie, in particolare quelle che si occupano di comunicazione, devono contribuire a interpretare e sostenere il cambiamento.
di Mario Morcellini
è mia intenzione cercare di «stressare» il concetto di crisi: utilizzerò un accostamento tra lo stato di crisi e lo stato di patologia allergica dell’individuo. Il concetto di crisi viene anche troppo spesso utilizzato per indicare una reazione allergica allo stress del cambiamento e la stessa parola crisi (così come la nostra percezione) funziona come se fossimo in presenza di un effetto reattivo. In altre parole, la crisi ci protegge in senso figurato dalla tempesta di polline del cambiamento, replicando le stesse dinamiche del nostro organismo quando cade in quella dimensione patologica che identifichiamo come allergia. Non sappiamo, però, perché gli uomini ricorrano così volentieri a questa parola, al punto da renderla scarsamente capace di leggere la specificità delle situazioni.
Si fa spesso riferimento alla crisi di sistema e alla crisi d’impresa; è mia intenzione, invece, discutere in termini generali della crisi, descrivere cioè l’aspetto semantico di questa parola. Sono convinto che non usciremo dai nostri problemi se non enunciandoli con chiarezza: del resto, non è mai successo che gli uomini siano riusciti a superare situazioni di criticità senza prima avere fatto uno sforzo cognitivo, e anche emotivo, di analisi e corretta prospettazione del cambiamento.
Da quanto detto, si può evincere una prima regola che risulta molto utile per fare fronte alle difficoltà che stiamo vivendo. Dalla crisi, o meglio dai suoi aspetti negativi, si esce soltanto con un progetto, una exit strategy. Sulla base di quest’ultima riflessione sarebbe utile domandarsi se la politica italiana dispone degli strumenti culturali, della visione e della capacità di simulare soluzioni a una scommessa come questa.
Vorrei sottolineare che l’università ha e deve avere un ruolo importante nella risoluzione dei problemi, perché ciò costituisce una parte della sua mission. In altri termini l’università di oggi deve contribuire alla discussione pubblica di un progetto di uscita dalla crisi. Non è opportuno, dunque, soltanto ripiegarsi nell’industriosità e nell’artigianato della didattica o della ricerca, perché una scelta di questo tipo può solo servire a salvaguardare la coscienza individuale del docente, ma non aiuta di certo la società con cui dobbiamo interfacciarci.
La letteratura della crisi, a bene vedere, riguarda tematiche quasi sempre legate al logoramento nei rapporti tra le generazioni e/o alle percezioni di logoramento dei valori. è necessario mettere in chiaro che le riflessioni sulla crisi nella storia dell’uomo sono essenzialmente lette come fenomeni di deficit di legittimazione e di crisi di comunicazione tra le generazioni. Andando indietro nelle scritture, già Salomone si era espresso a suo tempo in proposito: prendeva in giro gli anziani perché vedevano nei giovani la fine della storia, in quanto non si comportavano come avrebbero dovuto. Di fatto, l’avvicendamento tra generazioni determina un cambiamento che stressa soprattutto i valori consolidati.
Continuando con la riflessione sulla crisi, è utile soffermarci con attenzione sul suo significato etimologico. La parola crisi, infatti, deriva da una parola appartenente alla lingua greca che ha forgiato gran parte dei concetti della modernità: il verbo κρίνω, denso di significati (tra i quali «separo», «distinguo», «scevero») che incorporano tutti il significato del cambiamento. Assumendo questa prospettiva e leggendo la parola crisi entro una nuova consapevolezza, ci rendiamo conto che essa porta con sé un significato di scarto irrevocabile rispetto a situazioni sociali passate.
Mi sembra che l’attuale sia una crisi di capacità intellettuale proprio nella lettura dei nuovi bisogni. Il primo punto su cui si dovrebbe applicare questa riflessione è la nuova difficoltà per gli intellettuali di rendere il servizio cui sono chiamati. Posto che uno degli aspetti affascinanti della vita dell’uomo è quello di avere inventato la scuola, un luogo in cui attraverso la cultura e la conoscenza si può essere e diventare migliori, pensiamo solo a quanto è difficile attualmente scrivere un manuale, perché la realtà è compulsiva e non si rende più raggiungibile da testi che abbiano la presunzione di essere conclusivi, soprattutto, nelle materie che professiamo e che amiamo: la comunicazione, il marketing, il consumo. Ma non insisto su questo aspetto, anche se tengo a sottolineare che questa è una vertenza importante, perché ragionare su tali nodi concettuali potrebbe aiutare ad affrontare le nuove difficoltà dell’essere intellettuali e docenti. Il quadro era più semplice quando ciò che si insegnava poteva riposare per alcuni decenni a contatto con la realtà ed era davvero in grado di presentare una soluzione alle difficoltà reali. Oggi, insegniamo metodi, sapere fare, essenzialmente perché abbiamo preso atto che non basta più il sapere, cioè un sistema simbolico di certezze talmente forti da essere trasmesse.
Certo sull’università la crisi finanziaria ed economica può avere effetti dirompenti; non più, tuttavia, della crisi provocata dal mondo di Internet. Infatti, per molti versi Internet può configurarsi ai più come un’opzione di università a portata di tutti, perché la Rete si viene delineando come un luogo in cui si può agire senza subire, per di più, il costo della mediazione. Diversamente dall’università e, soprattutto dalla sua tradizione storica, Internet sembra avere una visibilità, una vocalità aperta a tutti. Poi, però, non sempre è così, anche se nella percezione pubblica continua ad apparire aperta a tutti.
A questo punto, dove si annida la proposta positiva in questo discorso che, così configurato, sembrerebbe solo una recensione filologica della crisi? Ho sottolineato la necessità di aver idee chiare in una situazione critica. Una buona regola sembrerebbe quella di riuscire a selezionare fra i tanti cambiamenti che occupano invasivamente la nostra coscienza: non quelli effimeri, di superficie, ma quelli strategici, destinati a durare. Trasformazioni che scuotono profondamente le teorie del passato e riformano il nostro modo di leggere i rapporti tra soggetti e società. In tale richiesta di presa di coscienza e di studio dei cambiamenti non effimeri risiede la proposta positiva di una scienza sociale rinnovata.
In questa luce, richiamo tre nodi chiave legati ai cambiamenti che assumo come non effimeri. Anzitutto, i cambiamenti nella sfera della società. Non si può trascurare questo elemento: la società attuale è diventata più opportunista rispetto al passato; gli uomini pensano di gestire la loro vicenda personale non solo riducendo le prestazioni individuali funzionali alla socialità, ma addirittura acutizzando l’attrito con gli altri uomini. è l’epoca dell’individualismo, che sembra lucrare dall’ipertrofia della comunicazione. Un grande studioso di economia e società ha sottolineato che, in tempi di crisi economica, le relazioni tra persone si incattiviscono. Francamente non sembra necessario scomodare lo studioso americano per notare alcune circostanze drammatiche nel nostro tempo che ormai fanno parte del senso comune. Questa è la prima dimensione; non provvederò a svilupparla, ma sarebbe concettualmente rischioso non segnalare la centralità di questo messaggio.
In secondo luogo, si segnalano i cambiamenti nella sfera della comunicazione, accanto a quelli del consumo e del marketing. Accosto questi elementi quasi con un intento polemico, ma vorrei riuscire a dimostrare che la crisi degli studi di comunicazione è la medesima crisi del marketing. Consumo e comunicazione hanno subito lo stesso destino: da una fase euforica e di presenza in prima pagina a una situazione di declino/ombra. è entrato in crisi il modo in cui i soggetti ottengono gratificazione ai loro bisogni attraverso i beni disponibili.
Sono necessarie, dunque, una grande forza intellettuale e una capacità di inventarsi. Il marketing ci sta provando: crea nuove parole, offre nuove sensibilità. Il nuovo lessico deve essere, però, intelligentemente contrastivo con quello del passato, diventato ormai obsolescente. Cosa è successo al mondo della cultura, della comunicazione e del consumo? è successo quello che noi chiamiamo mutamento di paradigma; ciò implica che si avverte l’esigenza di studiare il rapporto tra gli uomini in un contesto di esaurimento dell’esperienza sociale. Ma la cosa che mi preme sottolineare è che non basta la sociologia dei media per capire la comunicazione. Il generalismo diffuso, la comunicazione a suffragio universale ormai aperta a tutti, hanno lasciato credere a molti studiosi che fosse sufficiente studiare le classi sociali per capire i comportamenti comunicativi (e non il contrario), e che bastasse al tempo stesso concentrarsi sulle moltitudini e non sui soggetti.
Vorrei chiudere con una citazione non testuale di Egeria Di Nallo, alla quale si deve una delle più riposanti frasi della sociologia dei consumi e del marketing: «gran parte dei bisogni umani sono soddisfatti dal consumo». Questa frase strepitosamente innovativa, infatti, aiuta a capire il funzionamento del marketing e delinea un nuovo rapporto, non pregiudizialmente anticapitalistico, tra soggetti e imprese. La portata di questa affermazione non si lega però alla realtà di oggi. A questo punto, verrebbe da dire che gran parte dei bisogni umani, o almeno quella più espressiva dei bisogni profondi, è soddisfatta dalla comunicazione. Questo ci consente di capire come mai, a parità di altre condizioni, nel tempo moderno aumenta in modo performativo la forza della comunicazione.
In tempo di crisi l’unica carta da giocare è quella di enfatizzare le risorse della cultura come risorsa anticiclica. Purtroppo, dobbiamo constatare che la politica italiana non è dello stesso avviso. Lo dico nella speranza che si crei un progetto per rivalutare le nostre specialità. Ennio Flaiano notava che gli italiani alla manutenzione preferiscono le inaugurazioni. In un contesto in cui tutti parlano di talenti e di meriti, i casi in cui funziona un minimo di «ascensore sociale» coinvolgono quasi sempre quel luogo che noi chiamiamo università. Vale la pena rilevare come, sempre più spesso, siano i master, un aspetto peculiare del percorso universitario, ponte tra il sapere e il saper fare, a dare una scossa all’istituzione universitaria.
Ancora una volta, sembra che sia l’eccellenza orientata sulla pratica a rendere evidente promuovere la necessità del cambiamento.