Il senso della crisi, che sta contagiando tutti gli ambiti della vita individuale e collettiva, tende a condizionare anche la valutazione delle possibili soluzioni, ancorandole alle stesse situazioni critiche che andrebbero superate e ostacolando invece la comprensione dei cambiamenti incipienti.
Se digitate nel motore di ricerca della nostra Home Page la parola “smart”, riscontrerete che non c’è aggettivo più usato per sottolineare i miglioramenti che, in un tempo performativo come quello in cui viviamo, ogni settore della vita associata o produttiva rivendica, a torto o a ragione, come segno di eccellenza.
“Smart” sarebbe la gestione dell’acqua, senza parlare ovviamente di quanto purtroppo calamitosamente diluvia con sempre maggiore frequenza nel nostro Paese; “smart” sarebbero le nuove modalità degli allevamenti bovini, anche senza interpellare gli animali interessati e comunque fatalmente destinati a finire male; “smart” sarebbero le nuove reti di distribuzione energetica, miranti a ottimizzare il rapporto tra domanda e offerta, ma anche quello tra investimenti e ricavi, a vantaggio ovviamente degli stessi soliti ignoti.
“Smart” sarebbero i nuovi programmi di creazione delle immagini proposte nientepopodimeno che da Elon Musk, il quale dopo essersi impadronito di parti significative del reale, si sforza ora di impadronirsi anche di parti altrettanto significative dell’immaginario; “smart” sarebbero, o non sarebbero, secondo chi le considera, le nuove città intelligenti, anche se a volte troppa intelligenza potrebbe comportare troppo controllo e troppa rigidità relazionale; “smart” sarebbero senza dubbio le nuove piattaforme sanitarie, purché fruibili non da pochi, ma da molti; “smart” sarebbero i nuovi sistemi della mobilità, sempre che anche muoversi non diventi una costrizione più o meno manifesta; “smart” sarebbe i nuovi sistemi di sfruttamento delle risorse agricole, senza tuttavia che venga meno proprio lo sfruttamento; “smart” sarebbero persino i nuovi occhiali, che possono vedere vicino, lontano e persino non vedere, perché conta essere comunque moda. E qui ci fermiamo per non estendere oltre qualche mese di arretrato le nostre memorie editoriali e magari scoprire che quanto solo pochi mesi fa appariva “smart”, ora è entrato nell’occhio del ciclone della critica ecologica, o sociologica, o psicologica, senza contare gli aspetti della salute fisica e mentale.
Resta da chiedersi a cosa possa portare questa indubbiamente un poco tendenziosa ricognizione di ciò che di volta in volta ha voluto, o preteso, presentarsi come innovativo e a misura d’uomo, sfruttando quell’aggettivo, “smart”, che, come abbiamo già avuto modo di rilevare in un editoriale del mese di luglio, si correda di molti significati positivi: intelligente, elegante, brillante, rapido e via dicendo. Ma SMART, sempre in inglese – che ci volete fare: l’inglese oggi parla al mondo come una volta il latino parlava all’Europa! – è anche un acronimo che sta per Specific, Measurable, Achievable, Realistic, Time-bound: tutti significati che, a guardare bene, tendono a riportare la intelligenza, la eleganza e le altre belle qualità a cui facevamo riferimento, nell’alveo di una strategia ponderata, sostanzialmente ripetitiva e orientata al conseguimento di obiettivi determinati e concreti. Insomma, a conferire alla fantasia e alla creatività un carattere regolatorio quando non vincolante, più utile a mantenere le varie situazioni operative come stanno che a cambiare la valutazione e le prospettive del mondo in cui a vario titolo viviamo.
Certo è che di “smart”, sia come aggettivo sia come acronimo, si è fatto un uso persino eccessivo quando non un abuso: un uso eccessivo nel tentativo illusorio di sostituire le parole alle cose; un abuso nel tentativo di dimostrare che le cose fatte hanno conseguito gli scopi che si erano prefissate. Non a caso, in quell’editoriale, criticando gli usi e gli abusi concettuali e lessicali del termine “smart” suggerivamo un impiego concettualmente e programmaticamente più responsabile, che tenesse conto non tanto degli stati di avanzamento più innovativi nei diversi ambiti presi in considerazione, ma anche delle conseguenze che questi miglioramenti potevano provocare negli assetti sociali e culturali di una società strumentalmente sempre più forte, ma spiritualmente sempre più fragile. In effetti, non è difficile constatare come ogni irruzione tecnologica tenda ad accentuare le differenze e quindi le tensioni e le conflittualità tra le popolazioni mondiali e all’interno di queste stesse popolazioni.
In altre parole, invece di venire interpretato come un vero e proprio marchio di qualità, una soluzione generalizzata ai tanti problemi da cui è afflitto il mondo contemporaneo, il termine “smart” potrebbe, quando non dovrebbe, venire considerato come un problema: in particolare, il problema delle sperequazioni sistemiche che ogni eccessivo sviluppo di una parte provoca in tutte le altre parti, tanto nei mezzi quanto nei fini. La ricerca di soluzioni che si dimostrino più adatte alle difficoltà e alle aspettative individuali e collettive, comporta infatti che si ripensino gli assetti della vita contemporanea. Una vita, sia detto per inciso, assai meno “liquida” di quanto non avrebbe voluto la sociologia postmoderna, ma invece piuttosto “solida”, o meglio solidificata dai sempre più rigidi vincoli territoriali delle attività antropiche, tanto quelle delle concentrazioni urbanistiche quanto quelle delle concentrazioni produttive.
Questo a nostro avviso indispensabile ripensamento dovrebbe tenere conto non tanto degli adattamenti necessari per conservare i vecchi equilibri politici, economici e sociali, ma anche culturali, quanto di quegli scenari che ipotizzano cambiamenti radicali, in controtendenza rispetto agli scenari attualmente prevalenti, in cui si presuppone essenzialmente una ottimizzazione delle situazioni relazionali prevalenti. Lo scriveva un paio di mesi fa, in uno dei suoi periodici commenti su “Il Messaggero”, Romano Prodi, il quale dalla sua fondazione presiede il Comitato scientifico della nostra rivista.
Secondo il prof. Prodi, si può intravedere “l’inizio di un progressivo cambiamento nelle priorità delle scelte e dei modelli di vita di un numero sempre più grande di persone”. Questo cambiamento, rispetto ad alcuni precedenti epocali, presenta una caratteristica tanto fondamentale quanto significativa: quella di venire percepito non “come un obiettivo corale (lavoratori di tutto il mondo unitevi), ma come un traguardo personale, con tutte le conseguenze sul modello operativo dei sindacati e sul modello organizzativo delle imprese”. Pertanto, il mondo del lavoro “deve vestirsi non con indumenti standardizzati, ma con abiti su misura, una misura attenta a non riprodurre le eccessive disuguaglianze che abbiamo messo in atto nella scorsa generazione”. In conclusione, “le nuove esigenze e i nuovi orientamenti della società esigono radicali cambiamenti nelle tecnologie e nei modelli organizzativi, cambiamenti che ancora non conosciamo”. Qui sta il punto: che ancora non conosciamo e, aggiungeremmo noi, che forse non possiamo conoscere fino in fondo, perché i cambiamenti radicali nella storia della civiltà avvengono spesso, come diceva qualcuno impropriamente, a nostra insaputa.
Tuttavia, a volte il non sapere può costituire un vantaggio perché, sapendo o illudendosi di sapere come andranno le cose, rischiamo d’imporre alle dinamiche situazionali le nostre inveterate percezioni e convinzioni, con il risultato di ritardare, se non di comprimere, la emergenza di ciò che invece potrebbe prospettarsi come veramente nuovo. In un nostro recente saggio (Contro il futuro, Armando 2022) abbiamo appunto argomentato un poco paradossalmente come, nei passaggi storici che si dimostrano particolarmente complessi, probabilmente un atteggiamento “tattico” sia preferibile a un atteggiamento “strategico”. Mentre il primo, infatti, si basa su uno “sguardo da vicino”, sul confronto attento e tempestivo con le situazioni che volta a volta si manifestano, il secondo tende a privilegiare uno “sguardo da lontano”, un sistema di aspettative spesso velleitarie, che fatalmente finiscono per risultare sfalsate rispetto a una realtà la cui complessità comporta scarti improvvisi e imprevedibili.
Lo sguardo da lontano, così concepito, rischia di risolversi in una sorta di fuga in avanti, che spesso si traduce in un modo evasivo per prendere tempo sfuggendo alle proprie responsabilità e così contribuendo a denunciare e ad aggravare insieme le crisi incipienti. Come insegnava il grande matematico René Thom, in ogni fenomeno catastrofico il venire meno di un equilibrio delle varie componenti sistemiche presuppone sempre l’emergere di un altro equilibrio, in quanto i punti di instabilità non rispondono a configurazioni intrinsecamente caotiche, ma a forme topologicamente stabili e ripetibili. In altre parole, dipendono dal punto di vista di chi considera quanto avviene in ragione dei propri posizionamenti e dei propri interessi.
Per affrontare le crisi che una dopo l’altra ci stanno assediando, da quella energetica a quella climatica, da quelle economiche a quelle sociali, sembra quindi più conveniente e più affidabile proiettarsi anche eticamente sui nuovi possibili equilibri, ancorché aleatori e rischiosi, piuttosto che riferirsi psicologicamente e operativamente ai vecchi equilibri ormai obsoleti. Come affermava con la consueta ironia Albert Einstein, “la vita è come andare in bicicletta: se vuoi stare in equilibrio, devi muoverti”.
(gv)