I confronti filosofici del nostro tempo, tra apocalittici e integrati, tra analitici e continentali, tra realisti e relativisti, sembrano risolversi, come quello tra platonici e aristotelici, in convenzionali dispute di scuola, invece di misurarsi con la rivoluzione mediatica che stiamo attraversando.
di Gian Piero Jacobelli
A volte ritorna: non il vampiro dei racconti neri, non il fantasma dell’opera, non l’incubo che spaventa e tormenta. A tornare di tanto in tanto è, al contrario, la realtà, quella cosa consistente e duratura che chiamiamo realtà per distinguerla dai sogni, da tutto ciò che può andare e venire, su cui non si può fare conto, né per pensare, né per agire.
Non sempre e non dovunque è stato così: ci sono stati tempi e luoghi in cui i prodotti di una immaginazione alterata venivano considerati come più veri di ciò che possiede una esistenza indipendente dalla nostra, di ciò che resiste ai nostri sforzi di manipolazione o addirittura di rimozione.
Anche oggi la realtà si riferisce alla verità, ma questa verità pensiamo che sia vera proprio perché sembra prescindere dalle fluttuazioni ideologiche del pensiero, dai condizionamenti mentali dei baconiani idola fori, dalla stessa fantasia (fantasia e fantasma sono etimologicamente apparentati) individuale. Vero sarebbe ciò che preesiste e resiste alla incessante negoziazione della verità, o meglio, a giudicare dal risorgente dibattito in proposito, ciò che può fornirci un punto di appoggio razionale ed emozionale per sottrarci all’ansia dell’incerto e dell’imprevedibile e per consentirci di pensare al futuro in maniera meno aleatoria e insicura.
Realismo e/o relativismo
In questa prospettiva apotropaica, per cui si fa paradossale riferimento a qualcosa che nella sua stabilità dovrebbe consentirci il coraggio di cambiarla, ci sono sembrate molto significative le considerazioni di uno dei maggiori filosofi analitici americani, Hillary Putnam, pubblicate recentemente nel supplemento domenicale del “Sole 24 Ore”. Putnam, dicendosi alfiere del realismo e motivando questo suo impegno intellettuale con i successi e la sostanziale continuità del sapere scientifico, finisce per relativizzarlo, riducendolo a una suggestiva, ma problematica dialettica interna del suo pensiero. “Sono più di cinquant’anni che rifletto sulla questione del realismo”: dalla giovanile “visione realistica della scienza” (secondo cui i concetti scientifici non sono relativi a una particolare visione del mondo, ma si conservano anche quando i paradigmi conoscitivi subiscono cambiamenti radicali) al successivo “realismo metafisico” (secondo cui alla esistenza della realtà corrisponderebbe la possibilità di descriverla in maniera esaustiva); dal “realismo interno” (secondo cui la realtà coincide con ciò che è conoscibile in situazioni conoscitive ideali) al “realismo del senso comune” (secondo cui di uno stesso stato di cose si possono dare descrizioni diverse e tra loro irriducibili).
L’autorevole testimonianza di Putnam è preziosa nella misura in cui, se conferisce continuità alla nozione di realismo, ne rileva tante e tali metamorfosi da giungere a significare praticamente tutto e il contrario di tutto, inducendoci a pensare che, al di là della intima e fondamentale convinzione di riuscire a camminare senza vedere il mondo aprirsi sotto i nostri piedi, il realismo non si riferisca a qualcosa di epistemologicamente determinato. Che cioè serva a mitigare, se non a rimuovere i nostri dubbi su quanto dovrebbe esistere “veramente” e a trasformare questi dubbi in una volontà operosa, nel migliore dei casi, ovvero in un’affermazione pregiudiziale e perentoria, concernente non tanto la presunta realtà quanto le nostre crescenti insicurezze relazionali e progettuali.
Certo, per chi ricorda le polemiche del relativismo post-moderno, suona strano che all’ancoraggio realistico si affidino le stesse speranze affidate una trentina di anni fa all’ancoraggio relativistico, da parte di un altro importante filosofo americano, Richard Rorty, che di Putnam è stato uno dei maggiori avversari. Qualche anno fa, in una brillante rivisitazione della verità post-moderna, Maurizio Ferraris, tra i più interessanti protagonisti del rilancio di un realismo “debole”, scriveva che “l’assunto di fondo di Rorty era il seguente: la funzione classica della filosofia come conoscenza del mondo è venuta meno, al filosofo ormai non importa l’oggettività: il suo scopo, piuttosto, è quello di promuovere la solidarietà sociale” Come mai quello che prima appariva come un principio di forza, la convinzione che si potesse pensare proprio perché non c’era nulla di precostituito da pensare, che si potesse maturare un senso della realtà in maniera creativa proprio perché non c’era una realtà irremovibile e definitiva con cui fare i conti, si è trasformato in un principio di debolezza? Come mai, reciprocamente, oggi appare più forte il perseguimento più o meno illusorio di una realtà che si ponga a garanzia della verità, anche se si tratta di una verità ininfluente (ininfluente, perché ciò che c’è, c’è senza alcun valore etico, di selezione e di aggregazione)?
Gli schermi, tra illusione e disillusione
A parte teorizzare sui corsi e ricorsi del pensiero, rendendo un fatuo o interessato omaggio non soltanto alla semplificante spettacolarizzazione giornalistica, ma anche alle logiche accademiche di “sovescio” intellettuale, una risposta può venire ricercata nel sempre più pressante assedio mediatico. Se una volta, di fronte ai media elettrici, con tutta la loro presunta carica di normatività in campo etico ed estetico, ma anche con tutta la loro dispersione conoscitiva, si andava affermando l’idea che, per pensare, si dovesse prescindere da vincoli referenziali e procedere lungo i “mille piani” scaturiti dalla frammentazione delle grandi narrazioni, oggi, di fronte alla liquidità e aleatorietà dei media elettronici, si torna a cercare un punto di appoggio, una leva aristotelica, su cui misurarsi prescindendo dalle pervasive mediazioni mediatiche. Anche se pensare senza una mediazione, logica o tecnologica che sia, costituisce una insidiosa illusione, anzi, qualcosa di peggio: una sorta di devoluzione all’ammasso del proprio pensiero, dal momento che proprio nelle mediazioni, personali o impersonali, risiede ogni opportunità di vedere le cose vedendo al tempo stesso il punto di vista da cui si vedono.
In altre parole, un approccio realistico è tale se e solo se non è referenziale, ma innesca un processo il più articolato possibile di interconnessioni (in critica letteraria si direbbe intra e intertestuali), che conferiscono al punto di vista una capacità rifrattiva tale da inglobare anche altri punti di vista concomitanti e concorrenti. Al contrario, da un lato si registra una sorta di estroflessione dei media, che tendono a monopolizzare tutta la realtà relazionale , la realtà non è più ciò di cui si parla, ma è il fatto che se ne parli, come dimostra l’attribuzione alla Rete di tutto ciò che succede, dal controllo sociale alla sovversione culturale ,, mentre dall’altro lato si cerca qualcosa oltre i media, che i media stessi sembrano porre a portata di mano: una realtà più lontana che vicina, più altrui che propria, in cui è difficile distinguere tra illusione e disillusione.
Come osserva Federico di Chio in un saggio recente (L’illusione difficile. Cinema e serie tv nell’età della disillusione, Bompiani, 2011), alla “deriva autoreferenziale” (“molte delle immagini di oggi, pur volendo restare mimetiche, provano ad allentare il cordone ombelicale che le lega alla realtà, per guadagnare autosufficienza”) fa riscontro una altrettanto insidiosa “deriva iper-referenziale” (“se molte immagini odierne puntano a guadagnare una spiccata autonomia dal mondo, perlomeno altrettante vanno nella direzione opposta, sbilanciandosi decisamente verso la realtà”) con esiti drammaticamente contraddittori: “non credere, malgrado tutto” (“la messa in discussione dell’attendibilità e dunque dell’inconfutabilità dei mondi è senza dubbio una delle mosse più decisive”) o “credere, malgrado tutto” (“Si tratta di mondi, o di scorci di mondi, che valgono solo per quel che sono, per la loro fisionomia di superficie, per le sensazioni, di stupore, meraviglia, sgomento…, che suscitano, e non per il percorso di senso che ospitano, se lo ospitano”).
In entrambi gli atteggiamenti, tanto illusionistici, quanto illusori, i due classici principi freudiani, il principio del piacere e il principio della realtà, subiscono una sintomatica inversione di ruolo, riproponendo la illusione a volte come un sottrarsi al gioco, a volte come un mettersi in gioco, secondo la sua radice etimologica. In effetti, se il piacere diventa una realtà, riassumendo l’esperienza reale dentro le proprie illusionistiche fantasmagorie e ipnotizzando lo spettatore o quanto meno sottraendolo ad altre esperienze di maggiore consistenza empirica, la realtà può rappresentarsi come un piacere, non tanto perché costituisce un riscatto dalle ansie e dai dubbi esistenziali, quanto perché si configura più come un ambito relazionale che come un ambito referenziale. Da questo punto di vista, i media possono giocare un duplice ruolo determinante: quello di “chiamare fuori”, mettendo in questione quanto la tradizione teorica, ma anche pratica aveva preteso, e spesso ancora pretende di configurare come qualcosa di irriducibile e di autonomo; quello di “chiamare dentro”, in un dentro composto di convenzioni ridefinite incessantemente da una negoziazione interpersonale in cui risiede l’autentico piacere della vita, l’unico che ci faccia sentire vivi al di là della condanna a morte in cui si esaurisce la vita.
In ciò risiede il profondo, ineludibile valore della mediazione relativizzante, che può anche apparire come una sorta di alienazione, provocando i ricorrenti rigurgiti realistici, ma senza la quale la stessa realtà si esaurirebbe in un battito di ciglia, un effimero lampo di luce, che si risolve in un desolato “progetto di passato”, come splendidamente poetava Eugenio Montale, non a caso facendo riferimento al gioco a nascondersi degli schermi: Forse un mattino andando in un’aria di vetro, / arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo: / il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro / di me, con un terrore di ubriaco. / Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto / alberi case colli per l’inganno consueto. / Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto / tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.