Pubblichiamo la prima di cinque riflessioni correlate di Andrea Granelli, studioso delle nuove tecnologie della comunicazione e presidente di Kanso, società di consulenza specializzata nei processi innovativi, in cui viene analizzata la funzione essenziale del Web, con specifico riferimento all’attuale situazione di contrazione relazionale dovuta alla epidemia di Coronavirus.
di Andrea Granelli
La pandemia del Covid-19 è entrata prepotentemente nella nostra vita, mettendo in luce la fragilità dei nostri sistemi e processi decisionali. La dimensione emergenziale tende a suggerci che questo fenomeno sia un unicum, un evento devastante e inatteso, ma anche singolare, o meglio singolo nella sua riproducibilità.
Tra i tanti effetti – oltre ai drammi umani e alle crisi economiche (non ancora completamente manifestate) – ve n’è uno particolarmente rilevante e incisivo: la drastica riduzione della mobilità di ciascuno di noi. Questo viene considerato un male passeggero; si ritiene infatti che una volta conclusa l’emergenza la mobilità verrà pienamente ripristinata. Ma sarà davvero così? Vorrei richiamare a questo proposito alcuni fatti.
Innanzitutto quella del Covid-19 fa seguito a un numero non trascurabile di epidemie che si sono susseguite negli ultimi anni con una genesi simile: sono infatti tutte malattie che hanno in comune l’origine zoonotica, poiché sono state trasmesse da animali all’uomo. Pensiamo all’Ebola, alla Sars, alla Zika, alla Mers, all’influenza provocata dai virus H5N1 e H7N9 (più nota come aviaria) per citarne solo alcune.
Le cause che ne hanno determinato la diffusione sono state l’elevata densità della popolazione, l’aumento di commercio e caccia di animali selvatici e i cambiamenti ambientali dovuti per esempio alla deforestazione e all’aumento degli allevamenti intensivi specialmente in aree ricche di biodiversità. Potremmo dire che sia stato un caso se anche queste epidemie non si sono trasformate in pandemie.
Nonostante ciò una cosa è certa: i Governi si sono trovati di fronte a questa pandemia completamente impreparati, nonostante i molti esperti del settore fossero stati espliciti sia nel mettere in guardia, sia nel suggerire alcuni approcci specifici per aumentare la prevenzione e per contenere gli effetti una volta manifesti. Torna in mente l’intervento fatto da Bill Gates nel marzo del 2015 – a valle della diffusione in Africa del virus Ebola – dal titolo evocativo The Next Outbreak? We are not ready.
Ma non è solo il rischio pandemico a diventare una potenziale minaccia futura per la mobilità diffusa. Pensiamo anche alla crescente incidenza dei malfunzionamenti nei principali sistemi di trasporto – aereo, ferroviario, autostradale, … – legata al combinato disposto di una crescente complessità gestionale anche a causa dell’invecchiamento delle infrastrutture (il ponte Morandi docet) e di una progressiva riduzione degli interventi manutentivi (soprattutto quelli preventivi) derivante da una vera e propria ossessione per la riduzione dei costi spinta sia dalle privatizzazioni, sia dalla necessità di contenimento dei deficit statali.
E poi gli scioperi – tanto quelli a singhiozzo quanto le azioni sistematiche (per esempio i gilets jaunes hanno paralizzato la Francia per molte settimane bloccando una parte dei trasporti) – e le variazioni climatiche sempre più improvvise e dirompenti, che si riflettono in primis sui trasporti. E infine, dulcis in fundo, il terrorismo, che ha scelto la mobilità come campo di battaglia privilegiato: non solo i dirottamenti o le bombe sui treni, ma anche i camion gettati sulla folla inerme. Senza entrare nel tema del funzionamento delle macchine a guida autonoma e della facilità con cui possono essere teleguidate “hackerando” il sistema di guida.
Insomma dall’euforia originatasi a valle del primo allunaggio, dove si pensava di avere finalmente dominato il trasporto potendo raggiungere qualsiasi meta, perfino la Luna, molte cose sono cambiate. La mobilità non è più una commodity, ma è un processo complesso, potenzialmente pericoloso e associato a costi sempre maggiori.
Non stiamo neanche valutando l’impatto legato al tracciamento dei nostri movimenti (e dei relativi contatti che ne nascono) da parte dello Stato per ridurre i possibili contagi da Covid-19: misura già adottata in Cina, Corea del Sud, Israele e in discussione anche in Italia. Come ci ricorda Yuval Noah Harari in una recente riflessione sul “Financial Times” (The world after coronavirus, 22 marzo 2020), la possibilità che delle misure approvate in stato di emergenza diventino la norma è più che un rischio: è quasi una certezza. A questo proposito cita per esempio ciò che è capitato in Israele: una serie di misure “temporanee” adottate a valle della dichiarazione dello stato di emergenza durante la Guerra di Indipendenza (1948) sono state definitivamente abolite solo nel 2011.
Il fenomeno della mobilità ridotta è dunque strutturale e non episodico; mentre la reazione del mondo del lavoro a questa situazione – riduzione delle occasioni di contatto e di presenza e imposizione forzata dello Smart Work – sembra invece soprattutto di tipo reattivo in quanto considera questo isolamento sociale nell’ambito lavorativo specificamente legato alla specifica congiuntura del Covid-19.
Inoltre c’è una differenza radicale fra isolamento e solitudine. Come ha osservato il gesuita Denis Vasse – figura eclettica (era anche un noto psicoanalista) – “la solitudine è il contrario dell’isolamento, che invece nega la relazione fra persone… in quanto è negazione del desiderio che portiamo in noi, il desiderio dell’altro… Si potrebbe dire che l’isolamento sta alla solitudine come il mutismo sta al silenzio. Tacere implica che si abbia qualcosa da dire; essere soli suppone anche la possibilità di non esserlo, di essere aperti al mondo”. In questo ambito – come vedremo – il digitale consente di proteggere la sana solitudine senza forzare l’isolamento.
Questi fenomeni legati alla mobilità sono pertanto strutturali e non passeggeri; siamo dunque di fronte a una trasformazione epocale del modo di lavorare guidata non solo dalla rivoluzione digitale, ma anche dalla crescente problematicità della mobilità, che peraltro non ha iniziato a manifestarsi in questo periodo, ma si sta però acutizzando in modo accelerato.
La mobilità lavorativa è sempre stato un costo diretto (basta leggere le procedure aziendali per limitare le trasferte e ridurre i pernottamenti, per non citare le regole di alcune multinazionali che impediscono al board e al top management di volare sullo stesso aereo). Ora, però, stanno emergendo con maggiore chiarezza anche i suoi costi indiretti, soprattutto quelli legati ai crescenti rischi. Per questi motivi, già da molto tempo, le aziende stanno contenendo la mobilità dei propri dipendenti.
Questa situazione sta determinando, tra l’altro, un progressivo impoverimento dei processi formativi – ancora centrati sull’esperienza di aula – causato innnanzitutto da una progressiva riduzione delle sessioni in presenza o addirittura da una loro “sostituzione” con una versione banalmente digitalizzata (e quindi nei fatti degradata). Siamo quindi entrati nell’epoca della mobilità ridotta.
(gv)