Il dibattito sui valori della tecnologia tende frequentemente a distinguere tra tecnologie della dominazione e tecnologie della liberazione: le prime basate sulla violenza che crea la disuguaglianza, le seconde basate sulla capacità di riscatto della consapevolezza di sé.
“La tecnologia non è né buona né cattiva, ma non è neanche neutrale”: a furia di ripeterla, questa celebre formula dello storico della tecnologia Melvin Kranzberg sembra perdere di senso fino a risuonare a vuoto, come quelle frasi fatte che non soltanto non significano più nulla, ma che anzi impediscono alla riflessione di procedere oltre.
Può qualcosa essere non neutrale, ma al tempo stesso non essere né buona né cattiva? Se la non neutralità allude al fatto che qualunque tecnologia sia stata pensata e posta in atto per modificare una qualche realtà esistente, è evidente che questa modifica non può, sia pure in seconda battuta, non rivelarsi buona per qualcuno e cattiva per qualcun altro. In effetti tutte le organizzazioni della convivenza che abbiamo conosciuto e variamente definito autoritarie o democratiche, trovano la loro ragione d’essere e persino, talvolta paradossalmente, la loro consistenza consensuale – purtroppo proprio il consenso si è spesso rivelato storicamente il principium iniquitatis di ogni intemperanza del potere – nella diversità tra i loro protagonisti: una diversità che spesso e non volentieri si è tradotta in disuguaglianza, anche quando mantenuta entro livelli di tollerabilità sociale ed economica.
In altre parole, la tecnologia, che è intenzionalmente non neutrale perché scaturisce da una specifica esigenza di cambiamento, vale a dire dall’intendimento di affrontare in maniera più efficiente ed efficace le difficoltà della vita, è altrettanto intenzionalmente, per quanto surrettiziamente, buona o cattiva perché, secondo i diversi punti di vista, in concreto serve più ad alcuni e meno ad altri, quando non scaturisce addirittura dalla maliziosa o talvolta malvagia intenzione di accrescere il divario tra gli uni e gli altri.
In effetti, questo funzionale divario resta implicito in tutte e tre le fasi fondamentali della innovazione tecnologica: quella del cosa fare, che concerne un processo decisionale, un “voler fare”, inevitabilmente monopolizzato da chi gestisce il potere da un punto di vista sia politico sia economico; quella del come farla, che concerne una disponibilità di competenze sempre più selezionate e concentrate, quindi non a portata di qualunque mano; quella del poterla fare, che concerne non soltanto la fruibilità più o meno diffusa delle stesse tecnologie innovative, ma le conseguenze che questa fruibilità, con tutti i suoi vincoli e le sue coazioni a ripetere, comporta. Conseguenze che non riguardano soltanto chi di quelle tecnologie innovative deve fare a meno perché non se le può permettere, ma anche e forse soprattutto chi se ne lascia quasi travolgere finendo per non poterne fare a meno, come per esempio avviene con la diffusione pervasiva e per così dire “penetrante” delle tecnologie informatiche, tanto nelle loro modalità analogiche quanto nelle loro modalità digitali.
Insomma, non c’è dubbio che l’innovazione tecnologica, anche quando tende a migliorare le condizioni di vita in generale, tende anche nell’ambito di tali condizioni generalmente migliorative ad accentuarne le preesistenti articolazioni differenziali: in altre parole, le relazioni gerarchiche tra chi può decidere e chi non può decidere, tra chi può fare e chi non può fare, tra chi può avere e chi non può avere.
Ma c’è un altro aspetto di quella che potremmo definire come la caratteristica differenziale della tecnologia, su cui vorremmo riflettere ulteriormente, se non altro perché sembra aggiungere prepotenza a prepotenza, sperequazione e sperequazione, sofferenza a sofferenza. Vogliamo alludere a quelle tecnologie che servono dichiaratamente ad assecondare il contrasto, la sopraffazione, la soggezione. Come quelle della guerra ovvero quelle di una pace ingiusta, vincolata al dominio del più forte o quanto meno di chi detiene a torto o a ragione le leve del potere. Senza però trascurare quelle tecnologie, che, al contrario, sono state pensate e messe a punto proprio come antidoto alle prime, come una possibilità di riaprire quei margini di scelta che caratterizzano una convivenza aperta e non vincolata dalle sue mere ragioni operative.
Le hanno rispettivamente chiamate tecnologie della dominazione e tecnologie della liberazione: definizioni da cui si può dedurre che non si tratta esclusivamente di tecnologie materiali, ma anche di quelle tecnologie immateriali che innervano e orientano i sistemi di potere, sia in un verso sia nell’altro, e che servono a legare, o a sciogliere, tanto le menti quanto i corpi.
“Legare o sciogliere tanto le menti quanto i corpi”: questa formula così incisiva possiede un valore non soltanto metaforico, nella misura in cui si riferisce a situazioni e condizioni che hanno letteralmente legato e che continuano a legare individui e gruppi umani che si sono trovati e si trovano variamente a fare i conti con la violenza dell’interesse altrui e del pregiudizio. In proposito, ci è capitato recentemente di visitare, nel parigino Museo antropologico di Quai Branly, una interessantissima e pittoresca mostra dedicata agli “Indiani neri di New Orleans”, dove il doppio registro della tecnologia della dominazione e della tecnologia della liberazione trovava una eloquente ed esauriente rappresentazione.
Da un lato la secolare tragedia della schiavitù, in particolare della schiavitù africana, in cui le innovative strumentazioni europee della guerra e della navigazione cospiravano alla famigerata triangolazione della tratta di schiavi e di merci tra le coste occidentali dell’Africa, le Americhe del Nord e del Sud, i porti atlantici di Portogallo, Spagna, Francia e Inghilterra. Dall’altro lato, la capacità delle popolazioni vittime della tratta e del conseguente asservimento repressivo, gli “Indiani neri d’America” appunto, di elaborare complesse culture sincretistiche – immaginari collettivi, rituali festivi, comportamenti associativi – in grado di riscattare il quotidiano senso di impotenza in una nuova consapevolezza identitaria e in successive rivendicazioni di carattere sociale ed economico.
Proprio nella sua disumana emblematicità, la schiavitù costituisce non soltanto un tanto deprecabile quanto ricorrente evento storico, ma anche un riferimento fenomenologico delle aberrazioni che l’interesse, nelle sue diverse declinazioni pregiudiziali e implementazioni tecnologiche, può provocare nelle relazioni tra gli esseri umani, che non sempre hanno dimostrato di essere davvero umani, ma più spesso ostinatamente disumani.
Alla violenza materiale si alterna infatti la violenza immateriale, psicologica e culturale, in un reciproco e perverso innesco. In questo senso, la tradizionale e sovente convenzionale discussione sui rapporti tra la schiavitù e il pregiudizio non può risolversi, a nostro avviso, nell’asserzione di una loro reciproca inerenza – che la schiavitù presupponga il pregiudizio e il pregiudizio comporti la schiavitù – bensì nella ipotesi di una loro reciproca alternanza, secondo cui il pregiudizio rappresenta la reazione ideologica al venire meno della dura, ma dialettica realtà delle relazioni schiavistiche: un modo per sopperire ai vecchi vincoli dello sfruttamento esplicito e programmatico con i nuovi vincoli dello sfruttamento implicito, ma altrettanto programmatico.
In ogni caso, sia nel caso della dominazione sia nel caso della liberazione, sempre di tecnologia si tratta, di un modo di fare che corrisponde a un modo di pensare. In un tempo quale l’attuale, in cui la dimensione tecnologica soft si sta progressivamente, nel bene e nel male, confrontando con la dimensione tecnologica hard, non dovrebbe quindi sorprendere se a fronte di parole che, come si diceva una volta, fanno male, possano emergere anche pietre che fanno bene.
(gv)