Le cose fatte di parole

L’essere si dice in molti modi, scriveva Aristotele all’inizio del celeberrimo quarto libro della Metafisica e quel «si dice» ha fatto scorrere fiumi d’inchiostro.

Ci sono voluti secoli per cogliere la sostanziale relazione tra il discorso dell’essere e il discorso sull’essere. E ci sono voluti decenni perché il discorso sull’essere si proiettasse in un «essere in comunicazione» che costituisce oggi il fondamento più sollecitante dell’ontologia contemporanea. Essere significa comunicare e questa sintetica formulazione filosofica costituisce una vera e propria chiave di lettura della ricerca contemporanea. Tanto più se il caso si incarica di fungere da catalizzatore, collegando le suggestioni di un libro, di un convegno, di un progetto espositivo che sembrano articolarsi in un discorso comune, il cui senso è quello dello scambiarsi incessante delle parole e delle cose, proprio in quanto entrambe «si dicono».

Il libro in questione – Fusione fredda. Moderna storia d’inquisizione e d’alchimia, per i tipi di Bibliopopolis – è quello che Roberto Germano, giovane studioso di fisica della materia, ha dedicato alla sconcertante querelle della «fusione fredda»: locuzione che è ancora necessario scrivere tra virgolette per evitare quel tanto di legittima suspicione che continua a portarsi appresso. Chi ha più sentito parlare di fusione fredda? Chi si è chiesto che fine abbiano fatto Martin Fleischmann e Stanley Pons, i due chimici che quindici anni fa misero a soqquadro le austere aule della fisica mondiale con il loro precipitoso e non canonico annuncio di avere ottenuto, da una reazione elettrolitica tra poli di palladio immersi in acqua pesante, una energia superiore a quella necessaria per attivare il sistema.

Un libro, un convegno, un progetto espositivo sembrano articolarsi in un discorso comune, il cui senso è quello dello scambiarsi incessante delle parole e delle cose.La tesi di Germano può essere riassunta in tre affermazioni, ovviamente discutibili, ma non trascurabili: la fusione fredda è soltanto l’ultimo di una serie di fenomeni che lasciano intravedere la crisi del vecchio paradigma della fisica classica e l’emergenza di un nuovo paradigma. Questo nuovo paradigma viene osteggiato e rimosso dagli esponenti di quelli che Thomas S. Kuhn chiamava la scienza normale. Tuttavia, proprio in Italia, grazie al lavoro dei fisici Giuliano Preparata – purtroppo immaturamente scomparso – ed Emilio Del Giudice, gli esperimenti di fusione fredda sono continuati e hanno trovato una sede istituzionale nell’Enea di Frascati. Ne è scaturita la rivoluzionaria teoria del «quantico», che sostituisce alla idea dello spazio come contenitore di oggetti indipendenti un’idea di come le cose stiano insieme. Da qui a pensare che il platonico mondo delle idee vada riportato alle aristoteliche idee del mondo, che non sono un riflesso, ma un prodotto, il passo è breve.

Il convegno in questione è quello sul rapporto tra naturale e artificiale, di cui si pubblicano alcuni interventi nelle pagine seguenti e che Massimo Negrotti, direttore dell’IMES-LCA di Urbino, organizza da oltre quindici anni con filosofica determinazione: fino a suggerire di non interrogarsi su un artificiale che imita il naturale, ma su un naturale che si rivela sempre più artificiale, proprio in quanto anche la natura «si dice».

Già Umberto Eco rilevava che l’essere è il frutto della inevitabile menzogna del linguaggio, che si sostituisce al mondo. Un ulteriore passo dall’«oggetto» al «soggetto» compie Giuseppe O. Longo quando scrive che un mondo complesso esige storie complesse, riferendosi alla scienza che sarebbe «la totalità delle narrazioni di ciascuno di noi nel mondo».

Una narrazione non si basa soltanto sulla adozione di un linguaggio, ma chiama in causa la consistenza stessa del mondo, che esiste in quanto viene raccontato, alla confluenza tra il soggetto dell’enunciazione e il soggetto dell’enunciato. Non più di artificiale si deve dunque parlare, ma di virtuale, di quella «mediazione in più» che trasforma il reale in un complesso e autoreferenziale esercizio di comunicazione.

Infine, il progetto in questione è quello del Padiglione Italia alla Esposizione universale di Aichi in Giappone, di cui si può vedere una sommaria illustrazione nella quarta pagina di copertina: presentandolo alla stampa, il Commissario generale italiano, Umberto Donati, ha detto giustamente che l’obiettivo promozionale è quello di proporre «emozioni» e non «informazioni». In termini concreti, per fare fronte alla concorrenza di un mondo globalizzato in cui tutti sanno fare ciò che dicono, ma non tutti sanno dire ciò che fanno, l’Italia deve valorizzare la propria «arte del vivere», integrando un modello di produzione con un modello di fruizione. Non basta offrire qualcosa di speciale, ma bisogna anche offrire le capacità di goderne. Non basta parlare della qualità come espressione delle specificità ambientali e culturali, ma bisogna anche che gli altri imparino a condividere quelle specificità. Non basta la creatività dei prodotti materiali, ma bisogna ricorrere alla creatività dei prodotti simbolici, che riguardano la possibilità per ogni soggetto di diventare il protagonista «discorsivo» di realtà delle quali non ha diretta esperienza.

Per concludere in bellezza, anche lo scrittore argentino Pablo De Santis – il suo paradossale racconto, intitolato Il calligrafo di Voltaire, è stato pubblicato in italiano da Sellerio – ha associato programmaticamente un «mondo da fare» e un «modo di dire»: «Apra bene le orecchie, vada a teatro, si fermi ad ascoltare quello che dicono quelli che la circondano, e poi gli racconti tutto quanto, con la massima precisione possibile. Gli hanno regalato di tutto, ma gli interessano solo le cose fatte di parole».

Gian Piero Jacobelli è direttore responsabile di «Technology Review», edizione italiana.

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