di Alessandro Ovi
Le nanotecnologie, pur essendo uno dei settori di sviluppo più recente, hanno già perso uno dei loro padri fondatori.
A soli 62 anni è morto Richard Smalley, professore della Rice University di Houston e premio Nobel per la chimica nel 1996.
«Technology Review» lo scorso anno aveva inserito le sue scoperte tra le dieci tecnologie che cambieranno il mondo e aveva parlato dei suoi progetti sempre ambiziosi e visionari che ora verranno proseguiti dalla sua scuola.
All’origine della rivoluzione avviata da Smalley vi sono un po’ di serendipity, una grande capacità di immaginare l’infinitamente piccolo come qualcosa di normalmente visibile e una fortissima perseveranza.
Fino al 1985 erano note solo due forme di carbonio puro: il diamante e la grafite che differivano l’una dall’altra nel modo in cui gli atomi di carbonio erano legati l’uno all’altro.
Ma, in quell’anno, Smalley ne scoprì una terza forma, mentre eseguiva esperimenti che consistevano nel vaporizzare grafite con raggi laser. Analizzando i risultati, identificò dei clusters di 60 atomi di carbonio estremamente stabili e, come lui stesso amava raccontare, cominciò a costruire con le sue mani modelli di carta di possibili configurazioni geometriche in cui inserirli.
Si rese conto che la loro struttura era quella di esagoni e pentagoni legati tra loro, esattamente come succede nei palloni da calcio o nei «duomi geodesici» realizzati dall’architetto Buckminster Fuller. Per questa ragione la terza struttura del carbonio dopo il diamante e la grafite venne chiamata buckyball.
Per un po’ di tempo le buckyballs diedero da pensare a possibili utilizzi, dai lubrificanti alla produzione di cuscinetti a sfera di dimensione molecolare.
Ma soprattutto, e questa è la cosa più rilevante, diedero il via a una intensa attività di ricerca di altre nanostrutture di atomi di carbonio disposti a gabbia, chiamate fullereni.
Le forme possibili di queste «gabbie» sono tante, dalle grandi sfere alle sfere allungate, ai nanotubi, oggetto preferito da Smalley nelle sue ricerche, i quali come primo passo vedono un interessantissimo possibile utilizzo nella trasmissione della energia elettrica.
I cavi realizzati con i nanotubi dovrebbero avere una capacità di conduzione molto superiore a quella del rame. Il peso minore dei fili e la maggiore resistenza potrebbero consentire agli attuali piloni di sostenere cavi più grossi, con una capacità dieci volte superiore a quella dei pesanti e inefficienti cavi utilizzati nelle vecchie reti di distribuzione elettrica. Nei primi prototipi la fibra contiene miliardi di nanotubi al carbonio. L’obiettivo è la produzione di un filo con così poca resistenza elettrica da non dissipare l’elettricità sotto forma di calore. Smalley sosteneva che i fili quantici potrebbero avere prestazioni almeno simili agli attuali superconduttori, senza la necessità di costose apparecchiature per il raffreddamento. La ragione risiede nel fatto che su scala nanometrica le originali proprietà della fisica quantica prendono il sopravvento e un filo può trasportare corrente senza resistenza. Ma fino a un paio di anni fa nessuno era in grado di dire se questa particolare proprietà si sarebbe manifestata anche quando i nanotubi venivano assemblati in un sistema macroscopico. Allora Jianping Hill, un fisico dell’Università del North Carolina, a Chapel Hill, ha calcolato che gli elettroni possono viaggiare lungo un filo di nanotubi al carbonio sovrapposti e perfettamente allineati senza quasi alcuna perdita di energia.
Il gruppo di Smalley ha già prodotto fibre lunghe 100 metri con nanotubi ben allineati. Ma le fibre sono miscele di 150 diversi tipi di nanotubi, il che limita la loro conducibilità. Il filo migliore dovrebbe consistere in un solo tipo di nanotubo, il cosiddetto 5,5-armchair, così chiamato per la disposizione dei suoi atomi di carbonio. Le tecniche di produzione esistenti generano esemplari multipli di nanotubi, in modo indiscriminato. Smalley sosteneva che l’aggiunta di parti minuscole di un singolo nanotubo al carbonio all’inizio del processo avrebbe potuto catalizzare la produzione di quantità enormi di nanotubi identici; in altre parole, una clonazione del tubo originale. Come tanti ricercatori americani era molto attento agli sviluppi industriali delle sue ricerche e nel 2000 contribuì alla nascita di Carbon Nanotechnologies, una società dedicata alla produzione di nanotudi. Ciò rappresentava per lui non solo una iniziativa imprenditoriale, ma anche una espressione della sua convinzione che scienza e tecnologia erano la chiave del futuro del suo paese.
Smalley riponeva grandi speranze in questa ingegneria dell’infinitamente piccolo. La sua speranza era quella di infrangere la barriera dei 100 nanometri (100 miliardesimi di metro) per arrivare a collocare circuiti semiconduttori su una molecola di carbonio, materiale che avrebbe finito per sostituire il silicio nel mondo della microelettronica.
Per lui le nanotecnologie erano diventate una specie di missione: pensava che grazie a loro sarebbe stato possibile affrontare e risolvere i più gravi problemi del modo, dall’energia pulita e a basso costo, alla diagnosi e alla cura delle malattie più gravi. In realtà se si riprendono le «tecnologie emergenti che cambieranno il mondo» descritte da «Technology Review» si vede che dalle nonotecnlogie si parte per realizzare nanocelle solari, memorie ad alta densità, fotonica al silicio.
Costruire oggetti partendo dalla aggregazione di atomi rappresentava la visione di un modo di fare ingegneria assolutamente rivoluzionaria e con un numero sempre crescente di applicazioni.
Negli ultimi anni della sua vita Smalley si era anche impegnato molto a combattere le idee di un altro campione della nanotecnologia Eric Drexler, le cui proposte forse troppo provocatorie avevano creato problemi con la pubblica opinione riguardo alle nanotecnologie nel loro complesso.
Drexler sosteneva che sarebbe stato possibile partendo appunto dagli atomi, costruire macchine in grado di riprodursi autonomamente, i nanobots, e la cosa aveva scatenato la reazione degli ambientalisti che paventavano un mondo pieno di elementi non naturali e fuori controllo.
Smalley sosteneva continuamente che le idee di Drexel erano una sciocchezza e che invece le nanotecnologie erano una «grande forza del bene» e che non vi era alcun motivo per contrastarle.
Con questa sua profonda convinzione era anche stato molto efficiente a promuovere la raccolta di risorse per la ricerca. Nel 2001 Clinton iniziò un programma specifico di finanziamento che poi divenne nel 2003 la National Technology Initiative con un budget di 3,65 miliardi di dollari in quattro anni.
Il dato va inquadrato in uno scenario globale che vede un totale di 10 miliardi di dollari destinati alla ricerca sulle nanotecnologie con una crescita rispetto all’anno precedente di quasi il 100 per cento. Va messo in evidenza che vi è una posizione di leadership nettissima del Giappone con 3,6 miliardi e degli Stati Uniti con 3,4; terza la Germania con circa 0,7 miliardi e a seguire Inghilterra, Taiwan, Corea, Australia, Cina, Francia. L’Italia è dopo a meno di 0,1 miliardi.
è interessante notare che sia per il Giappone sia per gli Stati Uniti oltre il 70 per cento della spesa di ricerca è coperta da fondi governativi o comunque istituzionali.
Ormai tutte le maggiori università americane hanno programmi specifici sulle nanotecnologie o, come nel caso della Carnegie Mellon University, prevedono che in tutti i loro diversi istituti la nonotecnologia venga insegnata e sia strumento e oggetto di ricerca.
Per quanto riguarda le prospettive di mercato, come in tutti gli scenari, vi sono previsioni diverse, ma in genere pare non imprudente ipotizzare tra cinque anni una domanda superiore ai 30 miliardi di dollari (soprattutto nanomateriali, ma anche nanodispositivi e nanostrumenti) e in grande crescita.
L’effetto valanga del settore è dunque iniziato e fa tristezza sapere che, morendo a soli 62 anni, il professor Smalley, che tanto aveva contribuito a farlo partire, non potrà accompagnarne la corsa.