Sempre più gli strumenti della comunicazione si pongono tra noi e gli altri, tra noi e il mondo, riducendo, invece di accrescere, le nostre opportunità di una concreta partecipazione.
di Gian Piero Jacobelli
In una birreria due giovani seduti a tavoli abbastanza vicini da salutarsi a vista si telefonano o si mandano messaggi. Altri, giovani e non soltanto, qualsiasi cosa facciano, che viaggino, assistano a uno spettacolo, visitino qualche negozio o incontrino degli amici, devono farlo sapere a tutti coloro con cui sono tecnologicamente connessi. Altri ancora, invece di invece di scendere in piazza per incontrarsi con chi la pensa allo stesso modo o ha interessi concomitanti, preferisce le piazze virtuali, dove non si sa mai chi si incontri davvero.
Semplicemente guardandosi intorno si moltiplicherebbero le circostanze di un fenomeno pervasivo, quello di una comunicazione ipermediata, di una deriva comunicazionale (come dire: quando la comunicazione prende il sopravvento sulle sue stesse finalità) che trova riscontri anche meno individuali. Per esempio, la moltiplicazione dei cosiddetti social networks, che esplodono in brevissimo tempo, sovrapponendosi l’uno all’altro con frequenze di partecipazione che verrebbe da definire non tanto mondiali, quanto cosmiche. Quasi che comunicare non debba servire a qualcosa: a informarsi, per orientarsi meglio nella vita; a entrare in relazione con gli altri, per conferire alla vita orizzonti più estesi e comprensivi; ad ampliare la nostra capacità di azione, come suggeriva Marshall McLuhan interpretando le tecnologie in generale e i media in particolare come protesi per fare di più, per fare meglio, per fare insieme.
La proliferazione dei cosiddetti new media, nuovi proprio perché eccessivi e pervasivi, sembrerebbe dare ragione a quegli studiosi variamente scettici, i quali — perché non credono che si possa davvero comunicare qualcosa in considerazione delle profonde differenze personali, o perché credono che la comunicazione mascheri i reali processi decisionali da cui siamo strutturalmente esclusi — sostengono che, almeno nelle sue modalità tecnologiche, comunicare significa soltanto comunicare: un’azione che si risolve nel suo compiersi, con finalità non tanto informative o performative, quanto prevalentemente ludiche, e che, contrariamente alle convinzioni più diffuse e alle stesse apparenze, serve di fatto a porre tra noi e gli altri, tra noi e il mondo una insinuante “distanza tecnologica”, a ipocrita garanzia di una sempre più deresponsabilizzante pigrizia morale.
La democrazia deliberativa nel vortice degli schermi
In parole nostre, diremmo che sta emergendo un paradossale e ancora non abbastanza tematizzato “piacere della mediazione”, una sorta di ambigua “fuga dalla presenza”: ambigua, dal momento che, al contrario, tutta la retorica della rivoluzione mediatica connessa ai new media inneggia invece alla domanda di sapere e di partecipare. Pensiamo, per esempio, all’enfasi sulla democrazia deliberativa, locuzione proposta da Jürgen Habermas e ripresa da molti per alludere a un processo decisionale non esclusivo ed elitario, ma basato sul coinvolgimento informato della opinione pubblica.
Tuttavia, nella concezione di Habermas la democrazia deliberativa non si riduce a una democrazia mediatica, nella misura in cui la sua articolazione sembra discendere piuttosto da quella nozione dei “corpi intermedi” che, nella prima metà dell’Ottocento, Alexis de Tocqueville elaborò studiando gli Stati Uniti d’America. Una democrazia in cui la decisione, non potendo più i cittadini incontrarsi in assemblee plenarie, come avveniva nella democrazia ateniese, procedeva per gradi, passando dalle associazioni territoriali a quelle nazionali e a quelle federali.
Di fatto, anche questo processo decisionale graduale non trova più riscontro nelle democrazie contemporanee, nella misura in cui tende a risolversi in un processo di delega, dove la stessa rappresentanza istituzionale appare autoreferenziale, tanto più, quanto più proprio i new media tendono a spettacolarizzare i momenti di partecipazione e gli appelli referendari.
Potrà sembrare strano che si parli di spettacolarizzazione a proposito dei new media; siamo però
convintii che il problema non risieda nella distinzione mcluhaniana tra mezzi caldi e mezzi freddi, le cui determinazioni variano in ragione dei contesti in cui operano, ma nello schermo in quanto tale. Che, al di là della attuali distinzioni tra schermi “verticali” (quelli televisivi) e schermi “orizzontali” (quelli dei terminali attivi), fa comunque “da schermo”, illudendoci di essere protagonisti degli eventi eticamente e politicamente rilevanti, senza consentirci davvero di partecipare.
Ma se, come diceva Eraclito della natura, nella modernità, che oggi definiamo postmoderna solo per ribadire che non ne possiamo più, anche il potere ama nascondersi, cosa si può fare? Accettando la condanna lucreziana del “naufragio con spettatore”, e continuando a interrogarsi sulla ragione per cui nella società mediatica sembra impossibile “fare la rivoluzione”, potremmo cercare di cogliere i segni, del tutto preliminari e indiziari, di una inversione di tendenza: dal piacere della mediazione (il piacere di esserci “a maggior ragione”, perché non ci si è davvero) a quello che alcuni scienziati hanno “spiritosamente” definito il “piacere della birra”, che si manifesta in un rizomatico interesse per i luoghi dell’incontro, dagli stadi ai teatri, dalle librerie alle sale di concerto.
Si tratta del piacere di ritrovarsi faccia a faccia, che comporta qualche rischio in più, magari anche quello di non essere d’accordo, ma che, rispetto ai toni ambigui, aggressivi ed evasivi al tempo stesso, della posta elettronica, ha anche il merito di una più costruttiva intimità.
(GJ)