Se gli Stati Uniti fanno grandi passi avanti nella riqualificazione della gastronomia dolce, come nel caso del cioccolato, l’industria alimentare italiana non è da meno, grazie a una sapiente associazione di innovazione produttiva e specificità territoriale.
di Giordano Ventura
L’Italia di cioccolato presentata nel 2011 a Torino, nella manifestazione Ciccolatò, era lunga 13 metri e pesava 1,4 tonnellate.
Come si sa, il cioccolato non lo hanno inventato gli europei, né tanto meno gli italiani, ma le popolazioni mesoamericane, prima che Cristoforo Colombo sbarcasse in America. Per altro, quella che i messicani chiamavano xocòatl (“acqua amara”) era una bevanda assai diversa rispetto a quella che conosciamo oggi: una sorta di emulsione in cui, insieme al cacao macinato e bollito, venivano mescolati dolcificanti come il miele, la vaniglia e altre spezie tropicali.
La cioccolata era considerata una bevanda rinfrescante e rinvigorente, dotata di virtù medicinali, che non a caso era stata donata agli uomini dall’eroe culturale messicano Quetzalcoatl, il Serpente Piumato. Non a caso, Colombo ne fece omaggio a Carlo V, anche perché in Messico i semi di cacao veniva spesso utilizzati come moneta e si sa quanto gli spagnoli fossero attenti a tutto ciò che aveva un valore venale, anche se, ovviamente, preferivano l’oro e le pietre preziose.
Dalla fine del Cinquecento il consumo di cioccolata si diffuse in tutta Europa, particolarmente in Italia e in Francia, dove cominciò a chiamarsi “cioccolato” in quanto proprio un francese, nel 1650, escogitò il modo per macinare il cacao e renderlo solido. Da questa prima invenzione presero spunto i cioccolatai svizzeri per creare nell’Ottocento i cioccolatini.
E gli italiani? Agli italiani si deve un decisivo contributo alla diffusione del cioccolato, da quando un fiorentino, tale Francesco Carletti, cominciò a importare in Europa i preziosi frutti. Nonostante la concorrenza degli olandesi, che nel XVII secolo diventarono protagonisti del mercato mondiale del cacao, risale al 1678 la prima autorizzazione concessa dalla Casa Reale Sabauda “a vendere pubblicamente la cioccolata in bevanda”.
Oltre che commerciale, l’apporto italiano al mercato del cioccolato diventò presto anche tecnologico. Nel 1802 l’ingegnere genovese Bozzelli mise a punto uno strumento idraulico per raffinare la pasta di cacao e miscelarla con zucchero e vaniglia. Nel 1865, il torinese Caffarel, che quarant’anni prima aveva trasformato una piccola conceria alla periferia di Torino in una fabbrica di cioccolato, pensò di aggiungere al cacao le nocciole, inventando i gianduiotti.
In quegli anni nacquero le prime fabbriche italiane di cioccolato: oltre alla Caffarel, la Majani, la Pernigotti, la Venchi e la Talmone. Il successo crescente del cioccolato consentì l’avvio della produzione industriale e la nascita di grandi aziende come Perugina, Novi, Peyrano, Streglio, Unica e Ferrero, che nel 1946 creò la celeberrima Nutella. Ma il più recente salto di qualità dell’arte cioccolatiera italiana lo si deve a piccoli produttori come Amedei, Domori, Guido Gobino e altri che con passione selezionano e sperimentano le migliori fave di cacao da tutto il mondo.
Se le aziende americane, come quella descritta nelle pagine precedenti, puntano su una gestione articolata dei processi di globalizzazione, avvicinando e associando le capacità dei produttori locali con le capacità di lavorazione e distribuzione delle grandi marche, le aziende italiane operano secondo una formula diversa, ma altrettanto vincente: quella secondo cui un prodotto globale come il cioccolato trova nelle caratteristiche ambientali e nella creatività artigianale locale quello scarto qualitativo che può valorizzare un prodotto tradizionale sui mercati di tutto il mondo.