Si dice che, se la rivoluzione del telefono ha segnato il primato della voce, oggi i new media segnano il primato della scrittura: ma della voce non si può fare a meno, come dimostrano le tante riflessioni sul rapporto tra vocalità e oralità che si stanno moltiplicando anche sul piano editoriale.
Gian Piero Jacobelli
In voce veritas: il gioco di parole risulta molto meno gratuito e capzioso di quanto potrebbe apparire, dal momento che proprio qualche settimana fa ha debuttato presso Lione un festival omonimo dedicato appunto alla voce. Per altro, se il tradizionale modo di dire a cui fa riferimento, In vino veritas, allude a come la bevanda alcolica rilassi i freni inibitori e apra il fronte alla parola priva di avvertenze e accorgimenti retorici, In voce veritas va oltre la parola stessa. La voce e la parola, infatti, non sono la stessa cosa, anzi, come scrive a chiare lettere Corrado Bologna, filologo particolarmente versato nella esplorazione dei versanti più metaforici e meno praticati della parola, «prima ancora che il linguaggio abbia inizio e si articoli in parole per tramettere messaggi nella forma di enunciati verbali, la voce ha già da sempre origine», perché «prima d’essere il supporto e il canale di trasmissione delle parole attraverso il linguaggio, la voce è imperioso grido di presenza».
Con queste “parole” programmatiche viene introdotto quel “prima della parola” che è la voce, in un libro di riferimento dello stesso Bologna, opportunamente ripubblicato in una edizione ampiamente riveduta e corretta (Flatus vocis. Metafisica e antropologia della voce, Sossella 2022): un appello nei confronti di quanti intendono impiegare la voce non soltanto per comunicare, ma per esprimere le istanze più profonde della vita; e di quanti nella voce cercano quella dimensione originaria che, se non l’origine dell’uomo, concerne certamente l’origine degli uomini, sopraffatti alla nascita dal grido che ne certifica la presenza a sé e agli altri.
Questa nuova ed elegante edizione, che conserva la concisa riflessione di Paul Zumthor sull’“ordine del vocale”, torna nelle librerie dopo circa trent’anni dalla prima edizione, che riprendeva una prima pubblicazione in forma, appunto, di “voce” – la “voce” della “voce” – nella fondamentale Enciclopedia Einaudi, con cui si apriva un campo di ricerche ancora quasi inesplorato.
Se nella voce si può scorgere/ascoltare il soffio vitale di una vita sorgiva, è anche vero che la voce si articola rapidamente in una oralità altrettanto preziosa non soltanto perché alimenta la parola con tutto il suo carico comunicativo e relazionale Anche il saggio di Bologna si apre con una preliminare “metafisica della voce”, per concludersi con una liminare “antropologia della voce” in cui sono le differenze a giocare un ruolo significativo: in quanto differenza nelle identità, ma anche in quanto identità nelle differenze.
Sarebbe troppo lungo perseguire la esauriente e suggestiva casistica in cui Bologna aggrega le esperienze del vicino e del lontano, dell’alto e del basso, dell’interno e dell’esterno, della vita e della morte, dell’amore e dell’odio, del piacere e del dolore. Su un ultimo aspetto vogliamo tuttavia soffermarci, perché concerne quell’esercizio di scrittura e di lettura in cui si addensa quella grande mediazione strumentale che chiamiamo tecnologia.
Da un alto, «il diritto di esistere e di parlare è affidato, ormai, alla scrittura, non più alla voce»; dall’altro lato, «probabilmente l’era tecnologica-elettronica ha restituito alla voce una vitalità smarrita durante lo sviluppo della tecnica di stampa». Insomma c’è sempre un dopo del dopo; c’è sempre davanti una eco della voce che risuonava dietro. C’è sempre la possibilità di restituire una voce che vive alla voce che muore, in questa «che è la prima epoca in assoluto, nella storia, in grado di trattenere e riprodurre la voce», ottenendo mediante l’artificio tecnologico «quell’immortalità che il sogno di tutte le culture ha sempre proiettato nella mitologia».
Tuttavia, se questa possibilità tecnologica, confrontata con un passato in cui la voce poteva soltanto venire registrata con un mezzo alternativo, la scrittura, appare come una soluzione, proiettata nel futuro appare come un problema. In questo senso si orienta una opera altrettanto importante, dedicata alla voce da una delle più incisive filosofe italiane, Adriana Cavarero, a conferma di come la voce abbia acquisito, nella ottusità di una contemporaneità chiassosa, ma inconcludente, un valore emblematico. Il saggio della Cavarero (A più voci. Filosofia dell’espressione vocale, Castelvecchi 2022), si richiama vicendevolmente con quello di Bologna, anche se su piani speculativi e concettuali differenti, ripercorrendo le riflessioni filosofiche che si sono succedute a proposito della vocalità.
Dalla “voce che vibra, ma non è segno, essendo se mai la parola articolata il suo segno”, alla voce di Giacobbe, in cui la voce si fa inganno, confondendo le identità personali; dalla “voce dell’anima” alla “voce del linguaggio”; dal canto delle Muse al canto delle Sirene, il passaggio verso la modernità si sostanzia di una medesima mistificazione: quella del significato che si sostituisce al significante, pretendendo di essere al tempo stesso significato e significante. Sostituendo il “detto” al “dire”, la comunicazione alla relazione.
Questo è il “gioco del politico” che tende ad assolutizzare il relativo e a trasformare il senso in suono: «Nell’ambito del regno, il vocalico stesso, in quanto artefatto, è un segnale di incerta decifrazione al pari degli altri rumori del palazzo. Non solo le parole dei cortigiani sono false, ma anche le loro voci. Esse si accordano ai minacciosi rumori del sistema. Come per il suono di una porta che si chiude, in queste voci c’è un suono freddo e artificiale. Non c’è vita». In definitiva, la stessa voce che i mezzi di comunicazione di massa, dagli “altoparlanti” delle dittature ai “cinguettii” delle democrazie, hanno consacrato sottraendola a ogni concreta e responsabile vocalità, finisce per trasformarsi nella ideologica illusione di qualcosa che verrebbe prima di ogni sua concreta implementazione, proprio per non doversi confrontare con ciò che viene dopo.
Tuttavia, conclude Cavarero, a ogni ambivalenza fa sempre seguito una ulteriore ambivalenza. Se, «nella devocalizzazione del logos che accompagna la storia della metafisica», la voce ha finito per venire strumentalizzata come mezzo e non come fine, proprio «per via della sua inerenza alla parola in una tradizione che pensa la politica come logocentrica», resta nella voce «una valenza politica o, se si vuole, antipolitica, che certe fasi del pensiero filosofico non hanno potuto fare a meno di segnalare».
In conclusione, ogni volta in cui si certa di forzare un processo dialettico in una unica direzione, si finisce per aprire più o meno inconsapevolmente la porta anche verso la direzione opposta per cui, dopo avere ridotto la voce al silenzio, proprio dal silenzio sembra farsi sentire una nuova voce: «Ascoltato nella sua matrice vocalica, il dire mostra di consistere nel comunicarsi, l’una all’altra, di voci uniche, la cui natura relazionale non deve neppure sforzarsi di scendere a compromessi con l’impazienza dominatrice del detto».