di Gian Piero Jacobelli
La suggestione intellettuale, la permanente attualità del pensiero di Marshall McLuhan, il teorico delle tecnologie come estensioni delle facoltà del corpo, risiede spesso nella sua capacità di teorizzare l’ovvio, quando non addirittura il proverbiale. Né suoni ironica questa considerazione, dal momento che l’ovvio, quello che sta sempre sotto i nostri occhi, in cui viviamo quotidianamente e a cui siamo fatalmente assuefatti, richiede una straordinaria facoltà di percezione e di messa a fuoco per tradursi in una opportunità di riflessione, in una istanza metalinguistica. Con tutte le difficoltà implicite nel tematizzare qualsiasi sistema complesso con gli strumenti concettuali e comunicativi appartenenti a quello stesso sistema.
Nella sua crescita, osservava un poco hegelianamente McLuhan, ogni sistema, concettuale o tecnologico, tende a saturarsi, a raggiungere un «limite di rottura» oltre il quale cambia bruscamente e spesso si contraddice. Insomma, come si diceva una volta, il troppo stroppia e stroppiando – che significa storpiando – attiva dei peculiari meccanismi di rimozione che, almeno temporaneamente, si manifestano con una incapacità di prendere atto di ciò che sta succedendo. Così avveniva nella tragedia greca e in particolare nella tragica, e proverbiale, sorte di Edipo che paga con la cecità l’incapacità di vedere in quale guaio si era venuto a trovare: «Si direbbe che, secondo i greci, la pena per una violazione dovesse consistere in una generale perdita di consapevolezza del campo totale».
Oggi, continua McLuhan, si è passati dalla sindrome di Edipo, che non seppe vedere, alla sindrome di Narciso, che vedeva troppo perché vedeva soltanto se stesso: «Narciso si era intorpidito. Si era conformato all’estensione di se stesso divenendo così un circuito chiuso». Di quanti circuiti chiusi è intessuta la nostra proiezione tecnologica nel mondo? Quante volte, di fronte a un problema difficile, preferiamo rimuoverlo invece di risolverlo, con il duplice risultato paradossale di allontanarne ulteriormente le soluzioni possibili e di privarci, nella ricerca di queste soluzioni, delle tante risorse che potrebbero emergere intorno a noi?
Non si può non ripensare alle diagnosi di McLuhan cogliendo le preoccupazioni, certamente non eccessive, ma altrettanto certamente ossessive, che trapelano dai numerosi interventi sul problema della sicurezza mondiale ospitati da «Technology Review» quasi in ogni fascicolo: preoccupazioni che, talvolta, si traducono in comportamenti isolazionistici, in quella logica della «amputazione strategica dell’organo, del senso o della funzione molesta», di cui MacLuhan segnalava i rischi narcisistici, anche se ne riconosceva le radici profonde e la persistenza.
Da questo quadro, che proietta l’opprimente anche se sollecitante angoscia tecnologia in una complessa rete di conflittualità tra sé e sé e tra sé e gli altri, McLuhan traeva uno dei suoi tipici e ispirati presagi delfici: presagio che trova, esattamente quarant’anni dopo, sorprendenti e specifici riscontri nei difficili passaggi del processo di globalizzazione: «La guerra e la paura della guerra sono sempre stati i maggiori incentivi alle estensioni tecnologiche dei nostri corpi. Ma ancor più del tempo in cui si prepara una guerra, è tecnologicamente ricco il periodo che segue immediatamente a un’invasione, perché la cultura assoggettata deve rettificare tutti i suoi rapporti sensoriali per adattarsi all’urto della cultura degli invasori».
Perché il conflitto possa trasformarsi in gioco
e poi in dibattito, è necessario che i segni del conflitto tornino a mostrarsi in tutta
la loro crudezza, ma anche in tutta la loro incoerenza.
Ricordate: Ibis redibis non morieris in bello? L’ambiguità che spesso caratterizza gli icastici giudizi di McLuhan si traduce oggi nell’interrogativo di fondo di chi siano gli invasi e gli invasori, quanto meno se si deve giudicare in base a chi spetta lo sforzo maggiore per «adattarsi all’urto». Di questi problemi e di molti altri si è discusso in un interessante e nutrito convegno promosso recentemente a Roma da ISIMM e da Nova Spes proprio sul problema del conflitto e del modo in cui il conflitto si traduce in una narrazione del conflitto: narrazione che può essere espressione del conflitto stesso, ovvero del tentativo, per altro sempre compromissorio, di risolverlo, quanto meno «a parole».
Ci si è chiesto, variamente, se per una gestione risolutiva del conflitto serva di più la narrazione, il parlarne come di un evento organico e dotato di senso, per quanto perverso, o l’informazione, un riscontro degli eventi frammentato e spesso incoerente, ma disponibile a interpretazioni personali e non preconfezionate. La tendenza prevalente appare favorevole alla narrazione, che, nel suo dare senso, dovrebbe consentire da parte dei destinatari una più motivata presa di coscienza e una conseguente responsabilizzazione. Ma talvolta neppure il buon senso è il senso migliore, nella misura in cui ogni senso è buono per qualcosa e per qualcuno e quindi non è altrettanto buono per l’altro protagonista del conflitto. Come cercare di spegnere il fuoco con la benzina: e l’allusione alle fonti energetiche, in questo caso, non è puramente casuale. In effetti, dal punto di vista semiologico, tra conflitto e racconto corrono, sono sempre corse relazioni reciproche e collusive.
Primo: gli studiosi dei conflitti rilevano che all’origine di un conflitto c’è sempre un racconto. Non semplicemente una condizione di competizione o di contrapposizione, ma una razionalizzazione di queste condizioni in una struttura narrativa, un sistema di intenzionalità occasionalmente o definitivamente antagoniste, che serve a motivare e giustificare la rottura di un equilibrio e la necessità di ricostituirlo mediante la rinegoziazione violenta dei ruoli e della relazione con l’altro.
Secondo: gli studiosi rilevano che all’origine di ogni racconto c’è sempre un conflitto. Per esempio, quella che Tzvetan Todorov, illustre analista di racconti e di conflitti, chiamava «infrazione dell’ordine»: tra due ordini alternativi e contrapposti, di cui sono espressione i protagonisti del racconto, ovvero tra l’ordine precedente e l’ordine successivo. Ma soprattutto tra l’ordine che il racconto tende a instaurare e quello dell’ambiente esterno: «il racconto non è la semplice esposizione di un’azione, ma la storia del conflitto tra due ordini: quello del libro e quello del suo contesto sociale».
In una prospettiva più tecnica, Julien Algirdas Greimas, altro illustre studioso di come, per distinguersi, sia solitamente necessario contrapporsi, rilevava che il racconto, e in particolare il racconto poetico, consiste essenzialmente nella proiezione sintagmatica delle opposizioni paradigmatiche. Vale a dire, in una articolazione temporale delle differenze, che le sequenze narrative, invece di metabolizzare e modificare, finirebbero per consolidare e consacrare.
Inoltre, come rilevava Roland Barthes, diversamente dalla civiltà classica – tipicamente con la tragedia aristotelica – dove la situazione di racconto era fortemente codificata e il conflitto si scioglieva nel suo rapporto con la vita reale, nella civiltà moderna, «alla società borghese e alla cultura di massa che ne deriva ripugna esporre i suoi codici: sia all’una sia all’altra sono necessari segni che non abbiano l’aria di segni».
Qualcuno ricorderà a questo proposito il racconto che sta all’origine di tutti gli altri racconti, quello di Ulisse che, dopo avere pianto per il racconto di Demodoco il cantore, racconta le proprie sventure ad Alcinoo, re dei Feaci. Un racconto che è appunto racconto di sventure, anzi che non può essere altrimenti, perché come dice lo stesso Alcinoo alla fine del libro ottavo dell’Odissea, quando chiede al gemente Ulisse il suo nome, «gli dei filarono la rovina / per gli uomini, perché avessero anche i posteri il canto»: il canto, la memoria, la tradizione, l’identità.
Ulisse inizia il suo racconto, che tematizza tutti i conflitti possibili, quelli tra gli uomini e gli uomini, quelli tra gli uomini e gli dei, quelli tra gli uomini e i mostri, quelli tra i vivi e i morti. Quando si ferma, Alcinoo lo invita a proseguire, affermando – qui sta il punto – che non crede al racconto, in quanto il narratore è credibile, ma che crede al narratore in quanto il racconto è credibile: «Odisseo, non ci sembri davvero, guardandoti, un imbroglione e un bugiardo, come ne alleva tanti la terra nera, uomini sparsi in gran copia, costruttori di storie false, che uno non riesce a vedere. Ma i tuoi racconti hanno forma, in te v’è una mente egregia».
Ma Alcinoo stava parlando di Ulisse, il quale conosceva tutte le astuzie e, convenzionalmente, non era mai se stesso, dall’inganno nei confronti di Polifemo a quello nei confronti di Filottete che, nella sconvolgente tragedia di Sofocle, lo accusa esplicitamente di essere «privo d’ogni senso onesto o sano», in quanto si era insinuato nel suo ricovero «con lo schermo d’un giovane a me ignoto». Insomma, il racconto di Ulisse accredita Ulisse e non viceversa. Ma al tempo stesso il racconto accredita una vita in cui il conflitto non soltanto ha senso, ma ha il senso profondo di dare senso. C’è dunque da temere il racconto, come dimostra l’uso che se ne fa sempre più estesamente nei contesti promozionali, dove il racconto costituisce appunto l’ultima spiaggia di una comunicazione d’impresa resa ormai rauca, quando non afona, dal troppo gridare.
Si torna così all’interrogativo di partenza, con una risposta apparentemente paradossale soltanto se non si comprende come gli attuali assetti della comunicazione di massa tendano a rendere paradossale tutto ciò che non ne fa parte. Non si dimentichi che la stessa espressione di «villaggio globale», proposta da McLuhan in un celebre saggio della fine degli anni Sessanta, era frutto dell’illusione utopistica di rimuovere il conflitto mediante un suo trattamento non informativo, ma narrativo. L’informazione ci perviene mediata dal tempo e dallo spazio e richiede un lavoro personale di ricostruzione, mentre la narrazione ci interessa perché, come nel caso del racconto televisivo, è apparentemente «in diretta», ma presuppone un coinvolgimento precostituito. McLuhan si illudeva che la guerra in salotto costituisse la premessa per l’eliminazione delle guerre. Al contrario, s’è visto, purtroppo, che non c’è fascinazione più pericolosa del montaggio, che è sempre «narrativo», sia quello dell’impaginazione giornalistica sia quello del palinsesto radiotelevisivo. Proprio perché il montaggio, come diceva Barthes, è «un segno che non ha l’aria del segno».
In conclusione, per parlare del conflitto, perché il conflitto possa, come dicevano una volta i polemologi, trasformarsi in gioco e poi in dibattito, è necessario che i segni del conflitto tornino a mostrarsi come segni, in tutta la loro crudezza, ma anche in tutta la loro incoerenza. Per dirla in una parola, in tutta la loro distanza. Sorprendentemente, ma non tanto, è oggi la «distanza» il bene più prezioso, quello che, consentendoci di prendere le distanze, consente anche che riemerga il giudizio critico. Consente, come scriveva Aristotele a proposito della tragedia, di valutare le situazioni nella loro unità e complessità, evitando di coinvolgersi nel conflitto, per trovarsi coinvolti, se possibile, nella sua risoluzione: nella «catarsi».
Può sembrare strano che una diagnosi sulle motivazioni tecnologiche che provocano i conflitti possa concludersi con una prognosi relativa alla letteratura come strumento, più o meno fungibile, di gestione dei conflitti stessi. Ma soltanto se non si riflette, ancora una volta nel nome e con il supporto di McLuhan, come esista una continuità funzionale tra le tecnologie della trasformazione – Aristotele avrebbe detto: del movimento – e quelle della comunicazione: continuità che trae senso dalla fondamentale unità del corpo umano, quando il corpo individuale si proietta nel corpo sociale. Perché il problema forse è proprio questo: che l’apologo di Menenio Agrippa funziona meglio quando i corpi, anche quelli sociali, sono tanti e meglio ancora se, come concludeva McLuhan a proposito dell’«era elettrica», «abbiamo come pelle l’intera umanità. Purché si ponga attenzione al fatto che il celebre apologo non concerneva e non propugnava l’omologazione, ma una funzionale e responsabile diversificazione.
Gian Piero Jacobelli è direttore responsabile di «Technology Review», edizione italiana.