La sostenibile pesantezza della materia

Se la logica dell’artificiale presuppone l’esistenza di un «naturale» di cui esso è replica o imitazione, come ci si potrà comportare all’interno di un sistema in cui l’originale coincide con la molteplicità delle repliche?

di Vittorio Marchis

In altri contesti ho discettato intorno alla «insostenibile leggerezza del software», in altri spazi ho teorizzato sulla natura «postcontemporanea» della nostra società. La «perdita del centro» di cui aveva argomentato Hans Sedlmayr con riferimento alle arti visive e la «riproducibilità tecnica dell’opera d’arte» oggetto di attente profezie da parte di Walter Benjamin, non erano che timide previsioni di una società che negli anni tra le due Guerre soltanto conosceva la radio e la fotografia: due forme artificiali di una attività naturale che faceva riferimento alle espressioni più animalesche (e razionali) dell’uomo. La radio come voce e la fotografia come (di)segno: entrambi artificiali in quanto repliche e al contempo amplificazioni spaziotemporali delle medesime. Conosciamo bene ciò che è successo nella seconda metà del secolo XX. Oggi, dopo aver teorizzato sulla nuova «rivoluzione informatica», senza sapere esattamente che cosa stavamo attraversando, amiamo chiamare la nostra come «società della conoscenza» perché informazione e telecomunicazioni ci sembrano forse riduttive. Di certo sul piano culturale. Gli sforzi reiterati (e per molti versi vani) di continuare ad aggiornare la propria «categoria» per renderla più aderente alle ultime merveilles de la science et de la tecnique (il titolo qui vuole fare riferimento ai fortunati bestseller che il divulgatore francese Louis Figuier pubblicò nelle ultime decadi del secolo XIX) ha un qualche cosa di infantile e assomiglia un po’ alla volontà che ha ogni bambino capriccioso di volere l’ultimo giocattolo.

Così se da un lato la meccanica ha continuato a rimanere legata alla pesantezza di alberi rotanti e di ruote dentate (a parte i tentativi solo in parte riusciti di partorire una robotica o ancora una sedicente meccatronica), negli ultimi cento anni la scienza dell’elettrico è diventata elettrotecnica, quindi ha figliato prima l’ingegneria elettrica, poi l’elettronica, che ben presto si è trasmutata in ingegneria informatica e delle telecomunicazioni per approdare finalmente nel porto dell’ingegneria dell’informazione. Forse qualcuno potrà sperare in una «ingegneria della conoscenza», ma il rischio che i paradigmi dell’ingegneria possano ridurre ogni atto creativo a una dimensione algoritmica e deterministica non è trascurabile.

A questo punto, chi traffica le tecnologie dell’informazione potrebbe sentirsi offeso da considerazioni di parte, ma non è così. Queste poche considerazioni, che si inseriscono in un dibattito più ampio intorno alle culture dell’artificiale, vorrebbero soltanto riportare l’attenzione alla dimensione materiale, concreta di ogni atto tecnologico, che per sua natura deve porre ordine all’interno di un contesto di risorse: materiali, energetiche e cognitive. Il breve spazio che può essere qui destinato al dibattito, e parallelamente la estrema varietà delle problematiche messe in gioco, non possono che lasciare la scelta di affrontare il tema con una presentazione-collage, alla maniera di Kurt Schwitters, con una particolare attenzione a Jiri Kolar, senza dimenticare i de-collage di Mimmo Rotella. Infatti, nel nostro tempo di transizione, poco spazio trova l’innovazione culturale la quale invece lascia il posto all’enciclopedismo eclettico, al sincretismo, alla smania onnicomprensiva del catalogo e della biblioteca. Proprio la famosa Biblioteca di Fozio, nel suo piccolo, riesce a darci un’idea dello spirito con cui oggi l’artificiale vuole espletare la sua missione riproduttiva. Non potendo possedere tutto sul piano materiale, l’umanità oggi sposta la propria cupiditas sul virtuale, forse dimenticando che proprio quella Biblioteca è giunta sino a noi perché era di pergamena. Si potrà obbiettare che anche le biblioteche vanno in fumo, basti pensare a quella di Alessandria d’Egitto, ma ciò che più preoccupa è che oggi molti sono convinti dell’immortalità della rete.

LE PREPOTENZE DELLA SOCIETà IMMATERIALE

Forse esiste un Principio fondamentale del nostro mondo, che è ancora più radicato e fondato di quello dell’Entropia: che la persistenza della memoria dipenda dalla sua materialità e non dalla mole di informazioni che contiene. Per il resto, per mantenere acceso il fuoco di un sapere che naturalmente si estinguerebbe, è necessario che nuove Vestali siano deputate continuamente ad alimentarlo. Ma questo sconfina in dimensioni dove il naturale e l’artificiale (non inteso come arte-fatto) si sovrappongono e confondono, perché in una società dominata dal virtuale immateriale è molto difficile andare a stabilire l’applicabilità delle categorie che definiscono ciò che è «artificiale» nel senso classico più volte sottolineato nei suoi scritti da Massimo Negrotti. Che Venice a Las Vegas sia una Venezia artificiale (e per molti versi artificiosa) è facilmente comprensibile, ma che cosa potremmo dire di Jurassic Park, nella sua versione cinematografica, o ancor più di videogame?

Proprio questi ultimi prodotti che da una dimensione ancora toccabile e manipolabile quando erano parte (elettronica) di una playstation (R) o di altra consolle ora che si sono insediati tra le maglie di Internet pongono ben altri problemi: lo spazio a 3D che visitiamo agendo semplicemente con il mouse e che ci appare di fronte è oggetto di pura fantasia oppure è la riproduzione (più o meno fedele) di una realtà esistente?

L’ingegneria, a dispetto di altre scienze, e proprio per questo solo tardivamente ha conquistato lo status di disciplina scientifica, ha sempre fatto i conti con una dimensione in cui le cose e gli oggetti ne garantivano la pesantezza delle proprie scommesse sul futuro. Già altre volte ho ricordato come nell’antica Roma il pontifex maximus, capo degli aruspici e della classe sacerdotale, avesse questo nome proprio per il fatto che da esso dipendevano anche tutti i lavori pubblici: pontifex è appunto colui che fa i ponti, colui che costruisce qualcosa di materiale che deve fondare la propria credibilità su una divinazione.

Ma ritornando alla memoria e all’artificiale, alla materia e all’informazione, non bisogna lasciarsi confondere da categorizzazioni che spesso troppo razionalmente tagliano e sezionano un sapere che invece ha bisogno di integrazioni e di contaminazioni. Di fronte a un ramo secco trasportato dalla corrente di un fiume siamo portati a osservare le tracce di una storia naturale che ormai – a parte l’interesse di qualche specialista – poco interessa alla maggior parte della gente. Ma se questo ramo secco diventa un elemento di un’opera d’arte, se qualcuno lo inserisce in un processo di aggregazione materiale, allora esso diventa atto poetico, nel senso etimologico del termine, che dal greco poièin, significa modellare la creta. Senza per questo voler rivalutare il significato dei miti in una società secolarizzata, positiva e scientificamente razionale, si ricordi appunto che, proprio quando gli uomini ancora pensavano che anche le cose avessero un’anima, i miti della creazione – in tutte le religioni – vedono un dio che plasma la terra, non un dio che recita una semplice formula magica.

Ma si ritorni prepotentemente alla dimensione materiale della realtà di cui un ingegnere – e chi scrive queste pagine lo è stato – non può (né deve) fare a meno. Ci affanniamo tanto di fronte alla necessità di ordinare i nostri archivi, di organizzare le basi di dati, di mappare l’intero conoscibile, di scrivere l’enciclopedia delle enciclopedie, di comporre il mosaico dei mosaici e riteniamo che tutto sia riducibile a bit e pixel senza ricordare che proprio questi bit e questi pixel hanno bisogno di un supporto materiale, umile quanto necessario. Se esso viene meno, come probabilmente presto crollerà l’inconsistente eternità dei supporti magneto-ottici, tutti gli sforzi diventeranno vani. Si potrà obbiettare che nella rete, se un sistema muore altri continuano a vivere perché sono tutti collegati in un unico sistema, ma proprio per questo sussiste un motivo di preoccupazione perché non esistendo il riferimento assoluto, essendo il tutto un enorme sistema in continua evoluzione non si avrà mai la certezza totale di un testo origine, di un’editio princeps a cui ritornare. C’è chi ha profetizzato che la nascita delle nuove tecnologie dell’informazione ha decretato la morte della storia, perché con esse è profondamente cambiato il concetto stesso di documento, della cui «originalità molto deve ancora essere pensato. E se la logica dell’artificiale presuppone l’esistenza di un «naturale» di cui esso è replica o imitazione, come ci si potrà comportare all’interno di un sistema in cui l’originale coincide con la molteplicità delle repliche? Non vorrei essere catastrofico e ottimisticamente credo che la nostra civilisation – per dirla alla francese – ancora una volta saprà trovare un antidoto a questo processo degenerativo della cultura, ma forse sarebbe bene ricordare che proprio la nostra cultura spesso dimentica che anche all’interno del manto asfaltato di un’autostrada o nella carrozzeria di una autovettura è depositato, anzi stratificato un sapere che è il frutto di centinaia, se non di migliaia di esseri pensanti, che sintetizza il lavoro di una moltitudine di persone, che racchiude una quantità di pagine scritte di cui tutti si dimenticano e di cui probabilmente nessuno si preoccupa. Se tutti possiamo calcolare in termini di quantità di informazione il contenuto in bit dell’epistolario di un grande statista, come siamo in grado di quantizzare l’informazione che si reca appresso il cambio della propria autovettura o la cabina del proprio ascensore: queste cose stanno lì, presenti con la loro materialità e sopravvivono anche se tutta la loro storia passata è ormai dimenticata e cancellata: ma questo potrà durare anche in futuro? Forse bisognerà guardare altrove e forse a questo punto uno stimolo potrà arrivare dall’arte e dalla invenzione letteraria che hanno il pregio di guardare al futuro con altro spirito di chi, ingegnere o economista, deve fare scommesse che prima o poi dovranno essere verificate e pagate. E proprio questa libertà permette di dare sfogo a proiezioni fantastiche le quali, proprio perché senza alcuna pretesa razionalità, distruggono lo stesso schema di un’artificiosità che vorrebbe essere realistica. Amelie Nothomb nel 1996 ha scritto un romanzo intitolato Peplum (Ritorno a Pompei, Voland, Roma 1999) che potrebbe essere assunto a guida parallela per alcune considerazioni. L’intuizione maturata dalla protagonista, risvegliatasi dopo un’anestesia nel 2580, che la distruzione di Pompei sia stata voluta dagli stessi archeologi per potere in futuro avere memoria del passato e così assicurarsi un glorioso avvenire, in un certo senso spiega, senza dimostrarlo, che le perversioni di domani sono già tentazioni di oggi. Sic transit gloria mundi.

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