Una ambigua metafora per dire, evangelicamente, che bisogna guardare ai frutti
di Gian Piero Jacobelli
Tecnicamente, la “scatola nera” è un apparato installato a bordo di un veicolo per registrare una serie di dati e preservarli da ogni possibile aggressione. Il suo impiego prevalente riguarda i diversi mezzi di trasporto, dalle automobili agli aerei, che possono incorrere in incidenti non altrimenti ricostruibili. Sempre da un punto di vista tecnico, la scatola nera si compone di tre parti: un involucro resistente; un apparato elettronico che interfaccia gli altri apparati del veicolo e ne memorizza i dati; infine, un dispositivo che, per così dire, si fa sentire, emettendo un segnale utile alla sua localizzazione.
La scatola nera, in realtà, non è nera, ma arancione, anche se può darsi che diventasse nera in caso di incidente o che, in una accezione più sofisticata, si definisse nera perché non facilmente accessibile e perché, per scoprirne i segreti, si doveva aprirla. Proprio per questa intrinseca ambiguità, la scatola nera ha suscitato non poche adozioni metaforiche, sia sul versante letterario sia su quello scientifico, che, come al solito, sembrano contrapporsi, ma che, a una più attenta considerazione, forniscono riscontri sorprendenti – conoscitivamente più ottimista la letteratura e più pessimista la scienza – e, quindi, invitano a qualche riflessione in linea con quelle degli scorsi fascicoli sulle pretese aporetiche di “pensare il pensiero”.
Aprire la scatola, con un poco di letteratura e un poco di scienza
Un vecchio libro del poeta e critico letterario Giorgio Caproni (1912-1990) si intitolava La scatola nera (Garzanti 1996), mutuando la metafora tecnologica in maniera non del tutto scontata. Cosa voleva dire quel titolo: che venivano tratti da una scatola nera alcuni vecchi saggi quasi dimenticati, o che erano proprio questi saggi a confrontarsi con una scatola nera, nella misura in cui il discorso critico non può mai penetrare fino in fondo quello creativo? O, anche, che la traduzione, su cui si soffermavano alcuni saggi, costituisce una scatola nera per definizione, il luogo in cui lo scambio di parole rischia, diceva Caproni, di “distrugger l’incanto”, anche se non se ne può fare a meno.
Un’altra intrigante scatola nera troviamo nel titolo di un romanzo di Amos Oz, il celebre scrittore israeliano: anche in questo caso allude a una raccolta di pensieri segreti, ma non si tratta di pensieri individuali, bensì di quelli espressi in uno scambio di lettere tra due coniugi in crisi e ormai definitivamente separati: “come nella scatola nera che contiene le spiegazioni dei disastri aerei, così nelle lettere scambiate tra i diversi personaggi si trovano le ragioni della loro catastrofe”.
A proposito di catastrofe, ma passando a domini scientificamente più rigorosi, non si possono non ricordare le considerazioni di René Thom, lo studioso delle “catastrofi”, il quale, in Parabole e catastrofi (Saggiatore, 1980), concepiva la scatola nera non come un luogo in cui si ritrovano le informazioni rilevanti, ma come un luogo in cui tali informazioni passano, come un sistema di inputs e outputs, i cui stati interni possono solo venire ipotizzati confrontando la configurazione degli inputs con quella degli outputs.
Da questo punto di vista, la “scatola nera” ricorda una “macchina di Turing”, concepita da Alan Turing nel 1936, con l’intento di definire la sequenza di operazioni necessarie per risolvere un problema in un numero finito di operazioni. Qualche anno dopo, nel 1950, Turing proiettò la logica sequenziale della “macchina” in un test che ha preso il suo nome e che avrebbe dovuto costituire la cartina di tornasole per valutare l’intelligenza dei calcolatori: poniamo di trovarci in una stanza e di comunicare tramite un terminale con due persone, un uomo e una donna, in un’altra stanza. Dobbiamo cercare di indovinare il sesso dei due interlocutori. Solo uno di loro è obbligato a dirci la verità, mentre l’altro deve ingannarci. In modo analogo, supponiamo invece di comunicare con una persona e un calcolatore, cercando capire quale dei due sia la macchina, il cui compito è quello di ingannarci. Turing sostiene che, se la nostra percentuale di vittorie in questa ultima versione non supera quella nella versione maschio-femmina, allora bisogna ammettere che il calcolatore si comporta come un essere umano.
Questo test venne ripetutamente criticato, in particolare da John Searle, che nel 1980 propose l’esperimento mentale della cosiddetta “stanza cinese”. In breve: forse un calcolatore può dare a un interlocutore l’impressione di conoscere adeguatamente il cinese, giovandosi di memorie che gli consentono di elaborare dei simboli in entrata e in uscita. Ma, se si ponesse al posto del calcolatore, con le stesse memorie a disposizione, anche Searle potrebbe dare l’impressione di conoscere il cinese, che invece non conosce. La sintassi e la semantica, concludeva Searle, non sono la stessa cosa.
Molte obiezioni sono state mosse all’esperimento mentale di Searle, con riferimento al livello di pertinenza di un sistema, che nel caso della stanza cinese dovrebbe includere non uno solo dei due interlocutori, ma entrambi, per almeno uno dei quali la comunicazione in cinese sarebbe effettivamente avvenuta. In realtà, come insegna il teorema di incompiutezza di Gödel, non c’è sistema che sia in grado, restando al proprio interno, di descriversi compiutamente, anche se questa aleatorietà delle procedure di calcolo può venire interpretata, alla luce dei suoi possibili effetti relazionali, non tanto come un ostacolo all’azione, ma addirittura come un fattore di libertà. Anche la mente sarebbe una sorta di scatola nera i cui stati interni si risolvono in comportamenti rilevabili all’esterno, come voleva la corrente filosofica e psicologica definita “comportamentismo” dal suo fondatore, lo psicologo John Watson, e successivamente dall’altro psicologo Burrhus Skinner, che parlava, appunto, di una black box.
Non a caso, ritroviamo la metafora della scatola nera in una recente raccolta di saggi di Alessandro Pizzorno (Il velo della diversità. Feltrinelli, 2007), in cui l’illustre sociologo critica il cosiddetto “individualismo metodologico”: “Vi è mai capitato nella vita di incontrare un individuo in quanto tale, cioè non definito dalla relazione, con voi o con altri, in cui è posto, e dall’azione che compie nel contesto di quella relazione?” (p. 133). In questo senso, la scatola nera sarebbe costituita proprio da quella dimensione individuale, in cui confluiscono, non si sa come, motivazioni razionali e impulsi irrazionali, intenzionalità autonome e appartenenze condizionanti, che di quelle intenzioni rappresentano i presupposti. Infine, quasi riecheggiando le attuali ricerche neurologiche, Pizzorno conclude che “non c’è ragione di fermare l’operazione della riduzione alle concezioni mentali di un individuo, e non discendere alle componenti biologiche della mente ” (p. 134), riprendendo la classica definizione di “olistico” per quel sistema di flussi e riflussi che costituisce la nostra cosiddetta interiorità; “cosiddetta”, perché tutta la filosofia del “corpo proprio” ha messo in questione la separazione e la opposizione tra interiorità ed esteriorità.
Mediamorfosi e modelli di comunicazione
Come si può notare, nel concetto di scatola nera si celano significati apparentemente alternativi: da un lato, ciò che si può sapere perché codificato, anche se, proprio perché codificato, si tratta di un sapere virtualmente “risaputo”; dall’altro lato, ciò che non si può sapere, perché sprofonda nella magmatica palude cartesiana, da cui si può riemergere a fatica solo sapendo di non sapere.
Per altro, sapere e non sapere rappresentano due facce della stessa medaglia: quella della comunicazione, dal momento che, come abbiamo visto, si può sapere solo se c’è qualcuno che non sa e viceversa. Non sorprende, quindi, che la riflessione intorno ai rapporti tra mente e cervello e a quelli tra pensiero e intelligenza artificiale abbia finito per confluire nella riflessione sui modelli della comunicazione, i quali a loro volta si ispirano alla successione delle tecnologie mediatiche.
Con uno sforzo di sintesi che, a nostro avviso, non trascura la molteplicità dei fattori in gioco, potremmo affermare che tutti i modelli di comunicazione derivano da qualche significativa mediamorfosi: usiamo in questo caso il termine proposto qualche anno fa da Roger Fidler a proposito della rivoluzione digitale, ma suscettibile di applicazioni storiche di grande rilievo, alla stregua di quello di “pratica”, che anche comporta una radicale ridefinizione del campo mediatico e della funzione dei diversi media già attivi, in conseguenza della irruzione di un nuovo medium con caratteristiche fortemente innovative.
Di una mediamorfosi fa parte, ovviamente, anche un nuovo modello di comunicazione, che tende a interpretarne in chiave fenomenologica le caratteristiche tecnologiche. Si parla, infatti, di un modello telegrafico, quello ordinariamente definito come standard, con riferimento alla invenzione del telegrafo che, nella prima metà dell’Ottocento, rivoluzionò davvero le possibilità comunicative, poiché per la prima volta la comunicazione procedette più velocemente dei mezzi della mobilità. E si parla di un modello telefonico, dopo che il telefono si è prospettato come un risarcimento della lontananza, come un luogo comune virtuale, che trasforma le comunicazioni tecnologicamente mediate, quali quelle telegrafiche, in comunicazioni tecnologicamente immediate, quali quelle telefoniche. E si parla, infine, di un modello telematico per quelle modalità comunicative che scaturiscono dalla pervasiva diffusione della Rete, dove la telematica suggerisce una modalità comunicativa che è stata definita “evocativa” per sostenere, in polemica con il modello standard, come nella comunicazione possa venire comunicato soltanto quanto c’è già: il luogo, la cultura, le convenzioni condivise, cioè, per dirla con Umberto Eco, i “codici e sottocodici”. Noi diremmo piuttosto, con riferimento alle identità virtuali, che la Rete consente di comunicare con se stessi, illudendosi di comunicare con gli altri, rivelando, ancora una volta, qualcosa che è sempre avvenuto, Rete o non Rete.
La traduzione, perché il sapere viene sempre dopo
Sulla base di queste considerazioni sulla scatola nera, che traduce la comunicazione in una verifica comportamentale, pensiamo che proprio la traduzione, cui abbiamo già accennato a proposito di Caproni, possa porsi come la tecnologia più significativa in questo passaggio di millennio, soprattutto per la sua caratteristica immateriale: non a caso, anche Pizzorno, riflettendo sullo “straniero come metafora” nonché sui “diversi modi di alterità” – l’alterità quotidiana, l’alterità dell’incontro imprevisto, l’alterità istituzionale, l’alterità del nemico – coglie proprio nella metafora dello straniero il valore emblematico, modellizzante diremmo noi, della traduzione, rifacendosi al problema della “traduzione radicale” avanzato da Willard van Orman Quine. Anche Quine, come Searle, riferendosi alla impresa di un linguista che, trovandosi in contatto con parlanti in una lingua a lui assolutamente ignota, deve basare la propria traduzione sul loro comportamento, intendeva dimostrare “l’inadeguatezza di qualsiasi teoria del significato fondata introspettivamente; e a questa opponeva una teoria di natura olistica del significato, secondo la quale il significato di un termine è ricavabile solo dall’osservazione dei comportamenti che di volta in volta questo termine sollecita nelle relazioni che intrattiene con gli altri” (p. 290).
Insomma, per concludere, la scatola nera, che sembrava una metafora o di ciò che non si sa o di ciò che si sa, si ripropone come la metafora di ciò che si può sapere, purché non si pretenda di saperlo prima, ma si consideri la conoscenza, nella sua realtà comunicativa, come una piattaforma di confronto, un luogo comune, appunto, nel quale, come avviene con i nuovi terminali, non si usa più chiedere: “chi parla?”, ma semplicemente: “dove sei?”.
La scatola, dunque, è nera non perché non ci si possa vedere dentro, ma perché ci si possa vedere meglio fuori. Come predica il Vangelo: “Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi?”.