Ovvero l’altro come occasione di riconoscimento e di cambiamento.
di Gian Piero Jacobelli
Abbiamo cominciato, due fascicoli fa, con una estemporanea fenomenologia dell’altro, convinti che le alterità assolute, fossero pure di natura ottativa od oblativa, derivanti cioè dal desiderio dell’altro o dal sacrificio di sé, presentassero un intrinseco difetto dialettico e si risolvessero in una insidiosa chiusura pregiudiziale; e che, al contrario, fosse necessario aprirsi all’ascolto delle tante voci diverse che animano il nostro spazio vitale, a cominciare dalla voce ambigua dell’infante, che grida ascoltandosi e chi sa cosa pensa di ascoltare.
Abbiamo continuato, nel fasciolo successivo, con una riflessione sulla «confusione» identitaria delle istanze relazionali che caratterizzano il mondo contemporaneo. Da questa «confusione», e dal conseguente disorientamente ermeneutico, scaturiva una nozione di educazione non tanto ispirata alla capacità di un modello culturale di portare dentro, di inculturare, come direbbero gli antropologi, quanto di portare fuori, di acculturare, come direbbero gli stessi antropologi: una educazione all’essere altro, in cui dovrebbero venire esorcizzati i mostri della contemporaneità, inaugurando nuove opportunità iniziatiche.
Poiché non c’è due senza tre, in quest’ultima riflessione vorremmo interrogarci sul significato operativo di questa iniziazione all’altro, cioè alla opportunità di cambiare senza pregiudicare il cambiamento in schemi precostituiti e oggi fatalmente inattuali.
Le contraddizioni dell’impero
Quanto sta accadendo in queste settimane, la crisi finanziaria ed economica, il disorientamento nei confronti sia della storia sia della cronaca, la ricerca di modelli alternativi, fornisce a queste riflessioni un orizzonte di riferimento assai più drammatico e pertinente.
C’è solo l’imbarazzo della scelta: quasi a caso riprendiamo un vecchio – di quindici anni fa – saggio di Georges Corm, profeticamente intitolato Il nuovo disordine mondiale (Bollati Boringheri, 1994) e, ancora una volta quasi a caso, vi leggiamo: «Il liberalismo è sul punto di naufragare ovunque. Il suo stesso trionfo sembra perderlo nell’accecamento delle disfunzioni che lo colpiscono in numerosi punti della macchina economica internazionale, che esso dirige come signore assoluto da quando le barriere poste alla sua espansione dai sistemi socialisti sono crollati».
Non manca neppure la denuncia delle distorsioni del sistema bancario e la contradditorietà degli interventi di sostegno, che sembrerebbero declinati al presente, se non fosse per il piccolo indizio di monetazioni ormai anacronistiche: «Gli importi andati in fumo in decisioni di credito, prese soltanto attraverso meccanismi burocratici, sono colossali, non solo nell’industria, ma soprattutto nel settore immobiliare, luogo di tutte le speculazioni e di tutte le truffe. Che si tratti di banche senz’altro dichiarate fallite, come per le Casse di risparmio americane (Savings and Law Associations), o ristrutturate con fondi pubblici, come nel caso di grandissime banche, sempre americane (Continental Illinois), o delle enormi cauzioni che le banche europee stabiliscono per clienti la cui solvibilità è diventata dubbia, sono i contribuenti, i risparmiatori e gli azionisti che sopportano i costi finali di questi grandi errori economici che ammontano attualmente a miliardi di franchi o di dollari».
L’altro come alternativa
Cosa significa questa incipiente catastrofe dal punto di vista di quei processi di soggettivazione che stiamo analizzando? Significa che l’altro non è un limite alla nostra stessa possibilità di crescita, ma ne costituisce piuttosto un fattore di equilibrio, un’alternativa da preservare e promuovere per evitare quegli eccessi che costituiscono l’autentico fattore critico di ogni esercizio di potere.
In questo senso, a nostro avviso, vanno recepite e lette le ipotesi che si contrappongono alla crescita imperialistica dell’economia capitalistica, configurandosi tuttavia non tanto come una contestazione, quanto come una contemperazione.
Serge Latouche, illustre docente pargino di scienze economiche, ha di recente lanciato, o brandito, lo slogan suggestivo, ma non evasivo, della «decrescita serena», che non si pone come uno strumento della transizione utopistica, ma come «uno strumento di lavoro per qualsiasi responsabile del mondo associativo o politico impegnato in particolare a livello locale o regionale» (Breve trattato sulla decrescita serena, Bollati Boringhieri, 2008).
Anche in questo caso il problema consiste nell’eccesso, l’eccesso del «benavere» rispetto al «benessere» che, ancora una volta, significa chiusura in se stessi, il rifiuto di gettare lo sguardo oltre l’ostacolo rappresentato dalla propria superbia e protervia. Oggi la crescita è un affare redditizio solo a patto di farne sopportare il peso e il prezzo alla natura, alle generazioni future, alla salute dei consumatori, alle condizioni di lavoro degli operai e, soprattutto, ai paesi del Sud».
In questa situazione, conclude Latouche riprendendo una celebre metafora di Ivan Illich, sarebbe necessario e urgente riscoprire la saggezza della lumaca, che costruisce la delicata architettura del suo guscio aggiungendo una dopo l’altra delle spire sempre più larghe, ma a un certo punto smette di allargarsi e, pure continuando a crescere, «comincia a creare delle circonvoluzioni stavolta decrescenti». Altrimenti il suo guscio continuerebbe a crescere in progressione geometrica e, invece di contribuire al successo dell’animale, lo graverebbe di un peso insopportabile che gli impedirebbe di vivere.
Di Latouche cogliamo utilmente sia le raccomandazioni interpretative – «bisogna pensare a sostituire il sogno universalista (…) con un ‘poliversalismo’ necessariamente relativo, ovverosia con una vera ‘democrazia delle culture’» – sia la parola magica, tanto convenzionale quanto, in questo contesto, incisiva e programmatica: «altruismo», non a caso associata più alle istanze della mediazione che a quelle della immediatezza: «Questa concezione della decrescita non è in nessun modo una forma di antiumanesimo o di antiuniversalismo. Tra il trattare gli animali e le cose come persone (che corrisponderebbe all’animismo) e il trattare le persone come cose, tipico della tecnoeconomia moderna, c’è spazio per il rispetto delle cose, degli esseri e delle persone».
Per un consumo etico
La prima faccia di questo altruismo può venire individuata nel Consumare con impegno, come recita il titolo di un recentissimo saggio del sociologo e politologo Luigi Ceccarini (Laterza, 2008): «La società globale fa riferimento a nuovi codici di comportamento e di comunicazione, rendendo possibile a una molteplicità di soggetti, gruppi, associazioni, a livello locale, nazionale e internazionale, il prendere parte a momenti di confronto su tematiche legate all’ambiente, ai diritti umani e allo sviluppo sostenibile».
Un confronto che non si radicalizza su questo o quello stile di vita e sui connessi valori relazionali, ma che cerca di rimuovere le opzioni ideologiche per ricercare forme di soddisfazione più personalizzata e partecipata: «Si verifica una sorta di ‘ibridazione’, che rende gli attori sociali figure complesse: inglobando elementi del passato e del presente, locali e globali, individuali e collettivi».
La mutua assistenza
La seconda faccia dell’altruismo, sul versante più debole del confronto globalizzato, consiste in un fare di necessità virtù che, al di là della funzionalità locale, dove appare in grado di risolvere non poche difficoltà contingenti collegate alla stessa sopravvivenza oltre che alla qualità della vita, si traduce in una sorta di paradigma antropologico capace di reinterpretare le condizioni di vita tradizionali in una nuova progettualità individuale.
A proposito delle «tontine» senegalesi, forme di microfinanza assistenziale su base associativa, l’antropologa Francesca Lulli, in un interessante saggio intitolato Microfinanza, economia popolare e associazionismo in Africa occidentale (Editori Riuniti, 2008), parla, infatti, di un «pragmatismo di prossimità in cui le relazioni finanziarie, repressive e rischiose a livello del mercato globale, vengono reinterpretatre sulla base di quelle «relazioni di confidenza» che comportano «un importante radicamento nelle località: «Se la micorofinanza realizza, attraverso una conduzione del risparmio e del credito basata su criteri di partecipazione, eguaglianza una modalità di familiarizzazione ad una società civile orientata soprattutto al mercato, la gestione delle associazioni di pari testimonia di una capacità locale e diffusa di gestire dei rapporti democratici all’interno di una dimensione più ampia di ramificazioni socio-economiche orientate, però, prevalentemente verso la redistribuzione».
Insomma, nella prospettiva della globalizzazione e dei guasti che comporta per i regimi della convivenza, non mancano le alternative, che sono locali solo perché esprimono la capacità di reintegrare ciò che vale per tutti nel contesto di ciò che vale per alcuni: l’altruismo non come un pensare all’altro, magari ossessivamente e depressivamente, ma come un pensare per l’altro, attraverso l’altro, che costituisce la modalità fondamentale del riconoscimento.
La filosofia del riconoscimento
Riconoscimento è un’altra parola chiave dei riti di passaggio della contemporaneità; un’altra parola chiave che richiede di venire reintepretata per sottrarla alle sue prevenzioni ideologiche e restituirla alla sue pratiche esistenziali: «Non allora», come rileva Germano Scurti in un incalzante ed esauriente saggio dedicato appunto al riconoscimento (Visibilità e riconoscimento, Liguori, 2008), «una semantica referenziale dell’identità, ma una pragmatica del riconoscimento».
Hegel, nella sua Fenomenologia dello spirito, a proposito della lotta tra signore e servo, ipotizzava che il fondamento della socialità risiedesse non in un contratto tra uguali, come nella ipotesi hobbesiana, ma nel riconoscimento, aleatorio e reciproco tra disuguali. Proprio nella misura in cui l’etica del riconoscimento non è una volta per tutte, ma costituisce un peculiare evento aggregativo, vi confluiscono non soltato le funzioni antagonistiche rispetto a quelli da cui ci si separa, ma anche le funzioni di alleanza con quelli ai quali ci si unisce.
Giustamente, Scurti valuta e predica l’attuale pragmatica del riconoscimento in relazione all’affermazione di una civiltà multimediale, che tende ad alterare i rapporti tra il duplice processo di «identificazione», per quanto concerne il riconoscimento sociale, e di «individuazione», per quanto concerne l’autoriconoscimento, cogliendone quindi la portata, per così dire, interstiziale nelle «condizioni intersoggettive in grado di fungere da presupposti necessari all’autorealizzazione individuale». Sarà pure quella della lumaca, ma è certamente saggezza.