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    La Rete e la riscrittura dei saperi

    Intervista con il filosofo Carlo Sini

    di Massimiliano Cannata

    Linguaggio, tecnologie, saperi, Sini affronta i grandi temi del nostro tempo, con l’originalità e l’equilibrio di uno straordinario pensatore, capace di mostrare come l’innovazione, anche quella più «audace», conservi un cuore antico.

    L’uomo, la macchina, l’automa, questo il titolo del suo affascinate saggio, che prende le mosse dal ritrovamento casuale di uno studio del filosofo del diritto Mario Losano, Storie di automi, e da una riflessione sul Nuovo Golem, il fortunato lavoro edito da Laterza del teorico dell’informazione e scrittore Giuseppe O. Longo. Perché ha deciso di rifarsi a due autori così diversi nell’affrontare un tema di grande attualità e di forte impatto come il rapporto uomo computer nell’era della telematica e di Internet?

    Il mio interesse per il tema delle macchine e degli automi è antico; risale addirittura alla fine degli anni Cinquanta dello scorso secolo, quando queste tematiche si diffusero in Italia, coinvolgendo fisici, matematici, logici e filosofi. Penso a Vittorio Somenzi o a Enzo Paci per citare due grandi studiosi. In Figure dell’enciclopedia filosofica (Jaca Book, Milano 2004), ho approfondito in modo più particolare questo tema. In quello studio vidi allora con chiarezza che la prima macchina è il corpo stesso dell’uomo, in quanto protesi lavorativo-sociale. A quel punto il libro di Losano costituiva una buona introduzione storica al problema e quello di Giuseppe Longo un modo sicuramente attuale e stimolante di affrontare il tema dell’automa. Entrambi i lavori erano una buona introduzione per il lettore che volesse seguirmi nel mio percorso.

    Le tecnologie pervasive stanno abbattendo la tradizionale linea di separazione soggetto-oggetto. Qual è la riflessione di un filosofo teoretico?

    Lo sviluppo delle tecnologie pervasive va considerato senza superstizioni. Al fondo sta la relazione costitutiva del soggetto da parte del mondo e del mondo da parte del soggetto: questa relazione è intrascendibile. Soggetto e mondo sono due limiti in reciproca tensione; nessuno dei due va considerato in sé, cioè senza l’altro. In questa luce, le tecnologie sono sin dall’origine scaturite dal corpo umano in azione per riflettersi poi entro di esso e su di esso. Il fatto di inserire «macchine» entro il corpo umano è certamente oggi un fatto straordinario, ma la sua condizione di possibilità risale addirittura alla soglia originaria della parola e cioè dell’umano. Che altro è parlare a un bambino infante se non inserire nel suo corpo vivente un meccanismo esterno, elaborato dalla collaborazione sociale dei corpi comunitari associati?

    La scrittura, primo strumento «virtuale»

    L’idea del simbionte contenuta in uno dei saggi più noti di Longo può aiutarci a capire la complessa dimensione di sviluppo della realtà virtuale, che si intreccia, in maniera sempre più forte, con le nostre categorie, per usare un termine kantiano, di conoscenza e di interpretazione della realtà?

    Longo osserva che il primo strumento virtuale è la scrittura. è un’osservazione molto importante, soprattutto se viene sviluppata con adeguata consapevolezza filosofica. Anche sul virtuale si leggono oggi molte chiacchiere superficiali e vacui sensazionalismi. Si consideri, per esempio, che noi europei apparteniamo a quella che Ivan Illich chiamava l’epoca del libro e del testo. Questo significa che le nostre anime sono profondamente «cartacee», che a partire dai testi della letteratura, della filosofia, della storia e della scienza ci siamo messi in testa una intera visione del mondo, cioè una vera e propria «realtà virtuale». Il fatto che oggi tali effetti siano prodotti da strumenti in parte diversi dal libro, dal testo, dalla carta eccetera costituisce una innovazione importante e foriera di importanti sviluppi futuri, ma nulla di sostanzialmente così nuovo sul piano antropologico.

    Dalla meccanica all’elettronica, passando per i grandi tecnici rinascimentali, il percorso evolutivo tracciato nel libro è affascinante. Un capitolo dal titolo molto evocativo, Il lavoro e la mano, apre un fronte di analisi molto importante e stimolante. Viene naturale l’accostamento con il recente saggio di Richard Sennett L’uomo artigiano. L’homo tecnologicus proiettato nella dimensione della cittadinanza digitale, che rapporto ha con il fare e la materialità degli oggetti? La rete si può classificare tra gli «oggetti», seppure immateriali?

    La rete non è un oggetto, ma un supporto. La natura del supporto è decisiva per comprendere la scrittura dei saperi. C’è un supporto «manuale», la manualità umana del pollice opponibile, tanto per capirci, che apre la via alla produzione dei primi strumenti litici. C’è un supporto vocale per l’elaborazione del linguaggio articolato e così via. Ogni epoca privilegia, nel sapere, un certo tipo di supporto materiale, che è la conseguenza di quel supporto invisibile costituito dall’intreccio delle pratiche sociali di vita, di parola e di scrittura. Il supporto elettronico è l’ultima di queste apparizioni e produrrà senza dubbio un nuovo mondo di oggetti e di soggetti. Non è pensabile però che tale mondo non sia a sua volta in relazione alla funzione fondamentale della mano e in questo caso all’arte dell’artigiano, in un senso che è più ampio e anche nuovo, ma pur sempre radicato nello schema corporeo-spirituale degli umani e nella loro storia.

    Sul Web bisogna interrogarsi sull’etica della scrittura, emergenza che deve misurarsi anche con nuovi moduli sintattici ed espressivi che sono connessi all’uso dello strumento. Ritiene che il rapporto tra oralità e scrittura debba essere rideclinato alla luce della straordinaria evoluzione della scienza e delle tecnologie cui abbiamo assistito nell’ultimo ventennio?

    Osserverei che libertà non significa unicamente libertà di accesso. Così appiattita la questione dissolve se stessa. Se tutti semplicemente hanno accesso, l’esito è l’indifferenza, il caos e l’insignificanza assolute. Questo non significa che sia opportuno limitare l’accesso; significa che siamo ancora lontani dall’aver posto la vera questione. Essa concerne l’accesso stesso, la sua funzione e la sua finalità: accesso a che e per quale scopo? Sarei d’accordo a intendere tali domande alla luce di un’etica della scrittura, che è il titolo di un mio libro, apparso proprio in questi giorni anche negli Stati Uniti. Con la parola «etica» non intendo sollevare semplicemente una questione «morale»; intendo invece far comprendere cosa ci accade in quanto abitatori da sempre della scrittura in senso lato e cioè di varie figure del sapere. Indubbiamente la nuova natura dei nostri supporti ridisegna il rapporto tra ciò che la tradizione ha chiamato oralità e scrittura. Di qui la grande questione, appunto, della scrittura, che per esempio attraversa tutta l’opera di Jacques Derrida e anche la mia, con alcuni tratti comuni e alcune differenze, come dimostra il mio studio Eracle al bivio (Bollati Boringhieri, 2007), cui rimando per approfondire questi aspetti.

    Memoria e tecnologie

    «La memoria è trasformazione, non semplice conservazione»: sono parole sue. Platone attribuiva al ricordo, al recupero di quei «pezzi» della realtà che abbiamo dentro, la possibilità di conoscere. Oggi che disponiamo di archivi digitali universali fatti di una diversità di «saperi», la memoria è sempre una «porta» privilegiata verso la conoscenza?

    La parola «memoria» è usata sovente a sproposito, per esempio quando si parla di memoria del computer. Qui non c’è alcuna memoria, piuttosto c’è un archivio di tracce. Ovviamente anche un libro lo è. Per rendere operanti e viventi queste tracce bisogna interpretarle e per interpretarle deve entrare in gioco la reale memoria, cioè la reminiscenza, come aveva compreso Platone. In generale si può dire che l’azione della memoria può sussistere solo là dove è anche possibile l’oblio, cioè l’assentarsi di qualcosa e il suo ritorno in una nuova veste. In questo senso il vissuto è ricordato, cioè recuperato in quanto perduto e obliato: proprio per ciò è necessario lo sforzo di rianimazione delle sue tracce. Questo «lavoro» non può essere svolto da una mera macchina «esterna». Nondimeno la macchina aiuta il lavoro rimemorativo. Se la macchina è semplicemente l’emissione e la risonanza nello spazio della voce, il «resto» è sommamente fragile ed effimero. La pietra funziona meglio, ma è poco duttile o poco trasportabile; meglio il papiro, la pergamena e la carta; gli impulsi elettronici e il video funzionano ancora meglio e aprono la via a straordinarie possibilità future. L’azione della memoria se ne gioverà, per un verso, ma per un altro si troverà di fronte a enormi problemi di selezione, perché il lavoro rimembrante sia produttivo e sensato. Quindi avrà bisogno di esercitare con intelligenza l’arte di dimenticare che, come diceva Nietzsche, è necessaria e anzi essenziale per la vita.

    Reliance è il termine che esprime il collegamento utile tra i saperi. Si tratta di un concetto che risponde alla concezione della multidisciplinarità e della complessità, paradigma prevalente quando si analizza il fenomeno della rete. Non sempre però, la relazione che lega individui e informazioni è accompagnata dalla coscienza, dalla consapevolezza, dal senso di sé e dalla percezione reale della persona che mi sta di fronte. Come va interpretato il nuovo orizzonte delle identità digitali, anche alla luce della riflessione da lei avanzata sugli automi, sui robot, che sono, per alcuni aspetti, lo «specchio» del nostro modo di essere e di comportarci?

    L’informazione è certamente multidisciplinare. Lasciata a se stessa l’informazione ottiene però il contrario di ciò che dice o ritiene, essa genera disinformazione: stiamo sperimentando sempre più la valenza «politica» del problema. L’informazione come tale è spesso ingannevole e «retorica», nonostante ami darsi le arie di un’inesistente «oggettività. In questo senso il nostro mondo, come mondo delle immagini, è ancora più in pericolo che in passato. Un articolo scritto dal giornalista non nasconde di essere una visione e un’interpretazione soggettiva dei fatti; un servizio fotografico o televisivo invece lo nasconde; infatti non mostra mai né la prospettiva delle sue vedute, né il grande lavoro di selezione e di montaggio, né, infine, la natura molto contingente e in questo senso insufficiente, del suo lavoro. Al di là della quantità multidisciplinare, eminentemente «tecnica», dell’informazione bisogna di nuovo confrontarsi con i problemi della interpretazione. Che essi vengano delegati al mero funzionamento meccanico-disciplinare di una cultura e di un’informazione altamente robotizzate è uno dei nostri più grandi pericoli. Aveva ragione Heidegger quando osservava che la pratica filosofica è sempre più emarginata dalla concezione multidisciplinare dei saperi e nel contempo è, in un senso più profondo, la più necessaria al nostro tempo. Per questo ho dedicato un così ampio lavoro a riflettere sui fondamenti filosofici della nostra enciclopedia dei saperi. Da essa in gran parte deriva la reale identità degli individui che siamo diventati: conoscerne le qualità e i limiti reali è questione indispensabile per il senso dei nostri saperi e delle nostre democrazie.

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