di Alberto Abruzzese
Credo che oggi si stia arrivando a una stretta definitiva dei processi che hanno investito due forme di reputazione: quella del lavoro intellettuale incorporato negli apparati della ricerca e della formazione universitaria, e quella del lavoro intellettuale incorporato nei media. Sui due fronti si sono contrapposti tra loro i saperi fondati su piattaforme espressive tradizionali, come il libro o l’aula scolastica e universitaria, e i saperi interessati all’industria culturale di massa, come la pubblicistica e la fiction. Ma, dal punto di vista delle istituzioni che pesano sulle politiche estetiche ed etiche del sistema nazionale, è bene cogliere un tratto trasversale: la sostanziale distanza del ceto intellettuale, persino quello più vicino agli apparati di consumo, dall’idea di concedere una effettiva reputazione ai valori espressi dai mass media, che sono al massimo accettati nella cornice progressista della emancipazione democratica delle masse, dunque sostanzialmente come allargamento del consenso e della partecipazione emotiva ai valori fondativi elaborati dall’alto.
Le culture emergenti nelle reti on line hanno dato nuovo valore alla parola reputazione in aperta alternativa al rumore dei media di massa, ai loro attori sociali, al calo di intensità, competenza e efficienza dei loro valori professionali, delle loro gerarchie, dei loro corporativismi. Per le etiche hacker, la reputazione è la qualità da acquisire al fine di rendere credibili gli attori delle reti e più ancora le reti stesse. Si tratta di una qualità che non è una “dote”, qualcosa cioè che “si ha in dote”, ovvero si è acquisita per mezzo di un capitale culturale di partenza e che da allora in poi garantisce “credito”. è invece un riconoscimento: il riconoscimento della propria comunità di appartenenza, di una qualità conquistata “sul campo”, agendo in comune con chi la condivide e determina. Una investitura reciproca.
La reputazione è dunque il mutuo investimento di qualità che si realizzano nel vivo di processi relazionali; infatti il vivo delle relazioni può sempre revocare la fiducia in una comunità o gruppo che tenda a non rimettere continuamente in discussione la propria reputazione. Potremmo dire che qui la reputazione non è costruita da un “pubblico”, concepito in analogia al carattere astratto e ideologicamente universalista della “sfera pubblica”, ma nasce dentro una progressiva e volontaria coalizione di “privati” che vedono una sorta di naturale antagonista nelle istituzioni della “sfera pubblica”. In quanto privata, questa sfera si attiva perché è radicalmente “proprietaria” (per ciascuno è proprietà di se stesso, del proprio investimento e dei risultati delle proprie relazioni) e appunto per questo motivo è in grado di ricostituire quel senso di “responsabilità” che i processi di astrazione e, insieme, di centralizzazione e divisione della società moderna hanno sempre più deteriorato.
L’eclissi del senso di responsabilità fa emergere nel proprio vuoto la necessità urgente di separare tra loro lo spazio in cui viviamo dal tempo in cui pensiamo, in cui ci facciamo soggetti di noi stessi; la necessità di separare il pensiero dall’agire in cui siamo costretti, strutturati, alimentati. Sentire i territori digitali come integrazione tra umano e inumano può rafforzare una cognizione del dolore e infelicità della condizione umana che, se davvero patita anche soltanto nell’immaginazione, non può che diffidare la volontà di potenza del soggetto moderno, aprendosi a un radicale “disincanto” del disincanto su cui il moderno s’è sviluppato.