Prima ancora dei valori, che pure latitano, la crisi contemporanea si manifesta come una crisi di credibilità, sia perché pochi sono credibili, nei diversi campi del sapere e del fare, sia perché molti pretendono invece di esserlo, mistificando mediaticamente i rapporti tra sé e gli altri.
di Gian Piero Jacobelli
Gli studiosi dei media hanno ripetutamente segnalato che due sono i termini più frequenti nel linguaggio della politica contemporanea: “reputazione” e “tradimento”. Se non fosse che la politica sta irresponsabilmente dandosi la zappa sui piedi, nella sua scandalosa deriva castale – una deriva che la separa dalla società e la isola in una posizione sempre più autoreferenziale – proprio la ricorrenza parallela, anche se non necessariamente conseguenziale, di questi due termini dovrebbe indurci a ripensare la politica, contro ogni attuale evidenza, nel complesso, ma concreto orizzonte della convivenza.
Reputazione e tradimento si configurano entrambi, infatti, come una drammaturgia che non dovrebbe presupporre deleghe, quelle da cui nasce la politica, ma concerne piuttosto la vita non delegata: quelle procedure di riconoscimento che ci riguardano direttamente tutti, in quanto tutti vogliamo farci riconoscere in qualche modo di essere, anche se questo modo di essere inevitabilmente tradisce ciò più intimamente siamo.
In questo senso reputazione e tradimento rappresentano le due facce della stessa medaglia e come tali dobbiamo dunque ripensarle, per renderci conto dei rischi che si corrono quando vengono meno anche le buone maniere, intese non come regole prefissate, ma, nello spirito cinquecentesco che diede origine al Cortegiano e al Galateo, come una presa di distanza da noi stessi, un momento di riflessione e di predisposizione anche formale all’altro.
Dalla Galassia Gutenberg alla Galassia McLuhan
Basta pensare, in proposito, a quanto sta avvenendo nella Galassia McLuhan, che rispetto alla Galassia Gutenberg “rimedia” di più, ma “media” di meno. Da un lato il riconoscimento si focalizza non più sulle mediazioni interpersonali, ma su quelle mediatiche, per cui è lo schermo a dettare legge e a monopolizzare ogni presunta reputazione nelle proprie occasionali, banali, effimere esposizioni. Dall’altro lato, il riconoscimento viene travolto da una logica simile a quella che contrappone la vecchia comunicazione via lettera alla nuova via e-mail: tanto attenta alle forme, la prima, che doveva sempre cominciare con il riconoscimento dell’interlocutore e finire con il riconoscimento dell’emittente; tanto concisa e incisiva la seconda, che tende a rimuovere ogni paratestualità a favore di un testo che purtroppo sta dimenticando in fretta persino le regole della ortografia, avendo già dimenticato da tempo quelle della grammatica e della sintassi, e che in ogni caso privilegia la informazione rispetto alla reputazione.
Sempre più dunque, le due parole chiave della contemporaneità, la reputazione e il tradimento, vanno confluendo l’una nell’altra, nella misura, o dismisura, in cui ci accontentiamo di venire reputati secondo le regole mediatiche, che sempre più ci consentono di tradire sia il rapporto con noi stessi, sia il rapporto con gli altri, trasformando il conformismo in eccentricità e viceversa. In effetti, il discorso riguarda non soltanto la “sfera privata”, quelle delle relazioni interpersonali, ma anche la “sfera pubblica”, quella dei progetti e degli impegni comuni, dalla conoscenza alla innovazione. Le problematiche della reputazione e del tradimento hanno pervaso tutta la realtà che conta (una volta contava di più la realtà “vicina”; oggi, quella “lontana”, quella che non possiamo percepire direttamente) e che ormai si conosce quasi esclusivamente “per sentito dire”, secondo un luogo comune che meriterebbe qualche approfondimento storico e che è diventato il titolo di uno stimolante saggio-racconto di Nicla Vassallo, docente di filosofia teoretica all’Università di Genova (Per sentito dire. Conoscenza e testimonianza, Feltrinelli, 2011).
Proprio il sottotitolo, “Conoscenza e testimonianza”, ci fa capire come la materia di cui sono fatti i baconiani idola fori, o le cosiddette leggende metropolitane, si stia metastaticamente diffondendo lungo i due assi sistemici su cui si basa la società della comunicazione: quello di una referenzialità ormai del tutto ipotetica, anche nei suoi migliori momenti di creatività conoscitiva o narrativa, e quello di un artificioso consolidamento di questa referenzialità ipotetica nell’ambito di una garanzia testimoniale, che, non potendo più basarsi sul sempre più inaffidabile contratto sociale, deve basarsi su una fantomatica credibilità mediatica: la società della comunicazione «si erge su una specifica fonte conoscitiva, chiamata testimonianza, la cui grandezza va ben oltre quella che gli organi giudiziari le conferiscono. Il dibattito filosofico internazionale se ne è accorto da tempo. Non fosse altro perché le nostre esistenze sono pervase da molteplici e variegate testimonianze».
Queste testimonianze, nel nostro caso, riguardano la relazione tra reputazione (la credibilità che si può attribuire a una “testimonianza”) e tradimento (la pretesa che la “testimonianza” si risolva in un problema non di confronto, ma di potere): e ciò vale per ogni genere di conoscenza, da quella “teorica” (scientifica) a quella pratica (tecnologica).
Sapere e fare, ma con quali controlli?
Per quanto concerne il campo scientifico, il campo del sapere, proprio in questo fascicolo si apre un dibattito sul problema dei metodi integrativi o alternativi di valutazione della ricerca e sulle conseguenti graduatorie, che costituiscono spesso uno strumento non tanto di valutazione, quanto di distorcente spettacolarizzazione, nel bene e nel male. Per quanto concerne il campo tecnologico, il campo del fare, il rischio è quello di restare preda delle proprie abitudini consolidate, che non trovano più riscontri attendibili. Ancora più insidioso è il rischio delle abitudini degli altri, che finiscono per diventare percorsi obbligati, in cui la ripetizione fa aggio sulla differenza. Persino Google si basa su questo genere di reputazione, derivante da algoritmi “ambientali” perché comunque connessi a fattori di prossimità.
In altre parole, dobbiamo intenderci su cosa sia, o debba essere una mediazione: una intromissione vincolante o una integrazione sollecitante. Come afferma qui accanto Alberto Abruzzese – che ringraziamo per la disponibilità di un suo testo ancora in fieri – la reputazione, per non risolversi fatalmente in un tradimento, deve tornare “nel vivo delle relazioni” comunitarie, deve cioè tornare a misurarsi non tanto con la presunta immediatezza dei mass media, ma con la mediazione alternativa perché “proprietaria”, dei new media.
Aggiungeremmo soltanto che anche nei “territori digitali” si rischia di restare irretiti, per sé e per gli altri, in dimensioni “brandizzate”, che trasformano finte perseveranze in false fedeltà. La mediazione può mediare nei confronti della “fattualità” del qualcosa e non della “fatualità” del tutto, ma deve venire a sua volta mediata, cioè tradotta in un movimento alterno di entrata e di uscita dai “territori digitali”, come da ogni altra dimensione territoriale, dialettizzando i giochi di ruolo, che talvolta chiamiamo reputazione e talvolta tradimento. Insomma, non ci può essere mediazione senza mobilità, che è anche un altro modo per concepire una comunicazione eticamente rilevante.