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    La personale esperienza dell’altro

    Le scienze cognitive a confronto con le istanze della intenzionalità

    di Gian Piero Jacobelli

    Ai miei studenti del Laboratorio di Scrittura consiglio sempre una sorta di experimentum crucis di newtoniana memoria: «Se pensate di avere una buona idea su cui cominciare a scrivere», dico loro, «andate davanti a uno scaffale, prendete un libro, apritelo a caso, leggete qualche riga e, se le righe che leggerete, sia pure con qualche sforzo di fantasia, vi sembreranno utili, probabilmente la vostra risulterà una buona tesi». Non si tratta, a guardare bene, che di una versione del famoso teorema della serendipity, che Robert K. Merton propose agli studiosi come un invito ad affrontare i problemi con mente aperta e curiosa. Umberto Eco lo ha ripetutamente rilanciato come una sorta di assicurazione conoscitiva nei confronti della crescente complessità del mondo in cui viviamo. Quel teorema, in una sintesi molto personale, suonava così: sono più le cose che si possono trovare per caso di quelle che si trovano cercandole. Per la verità, i tre principi di Serendip, nella favola orientale che alla metà del Settecento Horace Walpole rese popolare in tutta Europa e che Merton trasformò in un assunto metodologico, sapevano bene cosa cercare – un cammello un poco deteriorato, ma ambitissimo – perché qualcuno gli aveva chiesto di cercarlo. La loro abilità, se mai, si manifestò nel mettere insieme e nell’interpretare una serie di indizi, che gli apparvero tali solo quando vennero indotti a ricercare il cammello in questione. Ma questo è proprio il motivo per cui il predetto experimentum crucis mi sembra significativo: perché dimostra, da un lato, la concretezza del problema in questione – se me lo fossi inventato di sana pianta, il mondo, nemmeno quello dei libri, potrebbe rispondere alle mie interrogazioni – e, dall’altro lato, la mia capacità di trasformare quel problema in una pressante sollecitazione intellettuale, un interesse in grado di interrogare il mondo, e in particolare il mondo dei libri.

    Come pensiamo quando pensiamo

    Anche per me l’experimentum crucis costituisce una cartina di tornasole per rendermi conto della consistenza e della attualità dei problemi che volta a volta richiamano la mia attenzione: in questo caso, mi riferisco agli spunti di riflessione che, nel corso di questo ultimo anno, sono andato proponendo in queste pagine in merito a un problema che presiede alla nascita del pensiero occidentale, ma che le nuovissime scienze della mente (o forse dovrei dire del cervello?) stanno da qualche anno riproponendo all’attenzione degli specialisti, ma anche della pubblica opinione. Potremmo così sintetizzarlo: cosa pensiamo quando pensiamo? O meglio, per esplicitarne le implicazioni esistenziali: quando pensiamo, pensiamo il mondo fuori di noi o il mondo dentro di noi? Va qui ribadito che non sono interrogativi meramente filosofici, dal momento che la scienza li ha fatti propri e ne sta derivando alcune delle linee di ricerca più interessanti di questo inizio di millennio, in particolare in campo biologico e in campo cibernetico. Intorno a questi interrogativi si dispiega, infatti, tutto il grande impegno delle scienze cognitive, con i loro più o meno espliciti corollari operativi, connessi con la possibilità di intervenire nel modo di pensare, orientando il pensiero verso esiti meno conflittuali, qualunque cosa ciò possa significare. Nei precedenti interventi, sulla scorta della polemica spinoziana contro la distinzione cartesiana tra res cogitans (la mente) e res extensa (il cervello), mi sono sforzato di argomentare un punto di vista negativo in merito alla pretesa che, se si riesce a sapere come si pensa, sia anche possibile controllare e orientare il pensiero, come per altro facciamo e abbiamo sempre fatto mediante le interazioni comunicative. Per riassumere, o si spiega la mente secondo le modalità introspettive che consentono al pensiero di raccontare se stesso, o si spiegano le funzioni cerebrali secondo le acquisizioni scientifiche che possono dire cosa succede quando si pensa, ma non perché si pensa. L’argomentazione, nel corso dei fascicoli di questo ultimo anno, ha navigato tra testi classici e testi contemporanei, a conferma che la riflessione filosofica e scientifica sul pensiero ha continuato a declinare l’indicibile: quella «cosa in sé che alla fine del Settecento Immanuel Kant aveva dichiarato, appunto, oltre il pensiero e il linguaggio, ma che, dopo, tutti hanno cercato di pensare e di dire, prima nei termini di una realtà concepita come referente del pensiero, poi, quando il relativismo ha preso il posto del realismo, nei termini di un pensiero dedito disperatamente – Gödel insegna – a pensare se stesso. Ma l’experimentum crucis può continuare a esercitarsi sulla produzione editoriale dell’ultimo anno, arricchendosi di spunti ulteriori, grazie al costante impegno che Raffaello Cortina Editore sta dedicando (2009) alle discipline a cavallo tra natura e cultura.

    La mente fenomenologica

    Il primo riscontro editoriale, forse meno occasionale del dovuto, consiste in La mente fenomenologica. Filosofia della mente e scienze cognitive di Shaun Gallagher e Dan Zahavi, due filosofi cognitivisti secondo cui, «quando sulla mente ha cominciato ad affermarsi un approccio naturalistico», questo approccio ha finito per valorizzare anche nel campo filosofico quelle correnti analitiche, che presentavano maggiori affinità con la scienza e la logica, emarginando quelle correnti, come la fenomenologia, che avevano «tendenzialmente adottato un approccio non naturalistico, o addirittura antinaturalistico ». In conseguenza di questa emarginazione, il concetto fondamentale della fenomenologia, l’intenzionalità, ha finito per separarsi da quello di esperienza, che invece è diventato il campo di prova degli approcci realistici. Il dualismo cartesiano è tornato alla ribalta, con il corollario insidioso che si possa operare sul primo dei sue domini conoscitivi, la mente, operando sull’altro, il cervello. Al contrario, «secondo i fenomenologi non è possibile indagare appropriatamente l’intenzionalità senza tenere in considerazione l’esperienza, la prospettiva in prima persona, la semantica in prima persona ecc. Viceversa, non è possibile comprendere la natura della soggettività se ignoriamo l’intenzionalità (p. 166). Gallagher e Zahavi ne traggono la conclusione che «non c’è alcun isomorfismo necessario tra il livello fenomenologico e quello neurale» (p. 257) e che, quindi, non sipuò ipotizzare alcuna relazione tra le configurazioni neurali e i comportamenti consapevoli del soggetto in questione. A questa prima considerazione se ne aggiunge una seconda riguardante il soggetto in questione e la sua capacità di relazionarsi con gli altri. I più recenti studi sui neuroni specchio sembrerebbero indicare che questi altri siano in qualche modo inscritti nel nostro cervello, in ragione del fatto che il nostro cervello sembra, appunto, riflettere il comportamento di quanti, in un modo o nell’altro, riconosciamo come nostri simili. Le conferme fenomenologiche confermano apparentemente questo assunto, ma lo prospettano in maniera differente: «Fenomenologicamente (cioè esperienzialmente), le intenzioni si presentano quasi sempre già rivestite dall’identità dei loro autori. L’idea che percepiamo prima le nude intenzioni nell’azione compiuta da un altro, e solo dopo attribuiamo l’agenzia, sembra basarsi in questo caso sull’ingiustificata supposizione di un isomorfismo tra i livelli subpersonale e personale-fenomenologico.» (p. 25). Se è vero, infatti, che esperisco l’intenzione come già specificata rispetto a chi compie l’azione, è anche vero che è l’azione a mettere in moto questo meccanismo di riconoscimento. è, quindi, nell’azione che io riconosco l’altro e non viceversa, per cui se l’azione, per così dire, mi corrisponde, anche l’altro mi corrisponde, chiunque sia, uomo, animale o addirittura macchina, per tornare alle considerazioni dello scorso fascicolo sulla scatola nera.

    Simulazione, percezione e coinvolgimento empatico

    In proposito Gallagher e Zahavi fanno diretto e specifico riferimento alle ricerche sui neuroni specchio, che hanno prevalentemente optato per la via della cosiddetta «simulazione automatica, implicita e non riflessiva» (p. 269): «Si potrebbe sostenere che i processi di risonanza neurale di cui stiamo parlando di fatto facciano parte di processi che sottendono la percezione intersoggettiva invece che la simulazione. […] L’attivazione dei neuroni specchio, secondo questa interpretazione, non è l’avvio della simulazione, bensì è parte di una percezione intersoggettiva diretta di quello che l’altro sta facendo» (p. 272). La conseguenza filosofica di questa impostazione è che noi reagiamo per analogia, cioè osservando che gli altri corpi sono influenzati e agiscono in maniera simile al mio e inferendo «per analogia che il comportamento di corpi estranei è associato a esperienze simili a quelle che ho io stesso» (p. 275). Anche alcuni tra i principali protagonisti delle ricerche sui neuroni specchio, come Giacomo Rizzolatti e Corrado Sinigaglia, in un esauriente saggio pubblicato dallo stesso editore, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, per quanto ribadiscano la tesi della simulazione, non ne fanno la base delle relazioni interpersonali, che resterebbero coinvolte in un diverso stadio delle elaborazioni propriocettive: «La comprensione immediata, in prima persona, delle emozioni degli altri che il meccanismo dei neuroni specchio rende possibile rappresenta il prerequisito necessario per quel comportamento empatico che sottende larga parte delle nostre relazioni interindividuali. Condividere a livello visceromotorio lo stato emotivo di un altro è cosa, però, diversa dal provare un coinvolgimento empatico nei suoi confronti. Per esempio, se vediamo una smorfia di dolore non per questo siamo automaticamente indotti a provare compassione. Ciò spesso accade, ma i due processi sono distinti, nel senso che il secondo implica il primo, non viceversa. Inoltre, la compassione dipende da altri fattori oltre al riconoscimento del dolore: per esempio, da chi è l’altro, da quali rapporti abbiamo con lui, dal fatto che siamo più o meno in grado di metterci nei suoi panni, che abbiamo più o meno intenzione di farci carico della sua situazione emotiva, dei suoi desideri, delle sue aspettative ecc.» (p. 181).

    La natura e la cultura

    Come si vede, la «cultura» torna a fare irruzione nella «natura», proprio in quanto il «sapere» cosa l’altro stia facendo è una cosa, il «capire» cosa l’altro stia facendo, nel senso delle implicazioni intenzionali che il suo comportamento può avere per me, è un’altra cosa, con tutte le conseguenze sul piano relazionale. Il fatto che dentro di me alberghino tanti altri potenziali e che ciascuno di questi altri possa venire attivato dal modo in cui decodifico i comportamenti dell’altro che, volta a volta, si presenta fuori di me, predispone a una dialettica «educativa» la mia percezione dell’altro e la mia conseguente reazione: non a caso educazione significa, appunto, portare fuori qualcosa di diverso da ciò che penso di essere, un altro «altro», per così dire, non condizionato dai pregiudizi del tempo, ma in grado di rendersi interprete dei cambiamenti che l’essere nel tempo propone. Per concludere, sempre approfittando strategicamente delle predette occasioni editoriali (in questo ultimo caso, La natura sistemica dell’uomo. Attualità del pensiero di Gregory Bateson), la tesi che l’altro sono io stesso e che respingere qualche altro significa respingere qualche me stesso, riecheggia nella periodica riemergenza dell’opera di Gregory Bateson e nella sua profonda convinzione della importanza decisiva, nel bene e nel male, dell’essere insieme, perché anche nella cultura tutto avviene per contatto, come sostengono gli studiosi della natura a proposito delle connessioni stereometriche in chimica e biologia. Rileva a questo proposito Pietro Barbetta, psicologo e psichiatra, in una interessante comparazione con il pensiero di Michel Foucault, che Bateson propone la comunicazione «come reazioni di individui alle reazioni di altri individui», aggiungendo che «è facile vedere qui un’altra formulazione dell’idea che il significato è una differenza che crea una differenza». Come dire che se «la comunicazione crea strategie che costruiscono gerarchie e funzioni» (p. 151), per evitare che queste relazioni gerarchiche e funzionali prendano il sopravvento sulla incalzante novità dell’incontro, bisogna evitare di iscriverle in ipotetiche pieghe cerebrali, ma misurarle incessantemente con la quotidiana, mentale, esperienza dell’altro. Perché, lapalissianamente, niente altro come l’altro può dimostrare anche il contrario.

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