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    La paura fa novanta

    L’antico proverbio sembra suggerire che nulla è più grande della paura. Ma, se riusciamo a sapere perché, quando e come si manifesta la transizione dinamica che può portare al panico in una situazione di folla,possiamo cercare di disinnescarla o almeno di attutirne gli effetti.

    di Bruno Giorgini, Armando Bazzani, Sandro Rambaldi

    “Basta considerare la scienza

    come la più fedele possibile umanizzazione delle cose;

    impariamo a descrivere sempre più esattamente noi

    stessi, descrivendo le cose e la loro successione”

    F. Nietzsche

    D. Helbing, A. Johansson e H. Zein Al-Abideen hanno pubblicato nel 2007 un interessante articolo dove prendono in esame le videoregistrazioni che documentano il disastro dovuto alla pressione della folla durante il pellegrinaggio alla Mecca del 2006 (D.Helbing, A. Johansson e H. Zein Al-Abideen, Dynamics of crowd disasters: An empirical study, “Phys. Rev.” E 75, 046109,�2007). Alcune centinaia di persone morirono schiacciate, migliaia rimasero ferite e traumatizzate. In genere si attribuisce questa catastrofe, come altre consimili, all’innesco nella folla di uno stato di panico. Nell’articolo citato si individuano tre transizioni di regime, da uno stato laminare ordinato, a una dinamica intermittente del tipo di quello che sperimentiamo in autostrada nelle situazioni di grande traffico (stop and go), fino alla turbolenza dispiegata. Se vogliamo una rappresentazione casalinga del fenomeno, basta che apriamo il rubinetto. All’inizio avremo una colonna d’acqua che sembra ferma, stato stazionario, quindi comparirà una pulsazione, stato periodico, poi continuando a aprire il rubinetto, cioè aumentando l’energia, il moto dell’acqua diventerà via via più irregolare e aperiodico fino alla turbolenza. Di fronte a queste conclusioni proposte dall’osservazione empirica, si pone la questione scientifica, se, come e entro quali limiti, sia possibile prevedere, almeno in senso probabilistico la transizione dinamica che può portare al panico. Ovvero se si può costruire un modello fisico matematico, quindi implementarlo al calcolatore e fare degli esperimenti virtuali atti a mettere in luce eventuali parametri di controllo dell’intera dinamica, dall’ordine al disordine, fino allo stato di panico. La questione scientifica che è la premessa per introdurre tecniche sempre più efficaci di prevenzione. Insomma se riusciamo a sapere perché, quando e come la soglia del panico sta arrivando, possiamo cercare di disinnescarla o almeno attutirne gli effetti. In quest’ottica presentiamo di seguito alcuni risultati ottenuti dal Laboratorio di Fisica della Città dell’Università di Bologna, modellando un gas d’automi (A.Bazzani, B.Giorgini, S.Rambaldi, F.Zanlungo Cognitive Dynamics in an Automata Gas, Proceedings of Wivace 2008: Italian Workshop of Artificial Life and Evolutionary Computation, Venice September 2008).

    La città come sistema complesso

    La città quasi per definizione è “affollata”, è animata dalla dinamica di folla, e richiama le folle. Nella sua normalità, nelle grandi migrazioni, nei momenti di crisi, nei grandi eventi turistici culturali di spettacolo, nelle azioni politiche e/o sindacali. In città abita e vive più della metà della popolazione della Terra. Si tratta di un fenomeno mondiale in espansione, con conseguenze che a tutt’oggi sono ancora difficili da valutare. In particolare viene meno la città mononucleare, assumendo non più la forma di una circonferenza, ma piuttosto quella di una rete aperta, tendenzialmente infinita, meglio senza confini, sconfinata. In altri termini siamo ormai in presenza di un sistema urbano, o di una collezione di sistemi, sempre più pervasivo dell’intero territorio, con una complessità fino a ieri inimmaginabile. Una quantità e complessità di individui, di popolazioni, di interazioni, di geometrie frastagliate, che si dispiega su scale spaziotemporali multiformi per parecchi ordini di grandezza, in linea di principio dalla prossimità all’intero globo. è evidente che questa complessità delle attuali folle urbane non può essere dipanata, né tantomeno governata, a partire dalle tradizionali partizioni disciplinari, urbanistica, architettura, sociologia, ingegneria dei trasporti, economia, psicologia, filosofia, estetica, scienze dell’informazione, politica e quant’altro. Se la città è oggi uno dei sistemi più complessi dell’intero universo osservabile, per capirla, e quindi capire noi stessi definendo il nostro sviluppo civile (nella costruzione e fruizione della città si incarna l’eterno umano, nell’aldiqua e, per chi crede, nell’aldilà, la civitas hominum e la civitas dei di agostiniana memoria), dobbiamo dotarci di una nuova scienza della città, la quale altro non può essere che scienza della complessità.

    Il panico come strumento di sopravvivenza

    Nella folla si può annidare il germe del panico fino alla catastrofe. Si calcola che ogni anno centinaia di persone muoiano per schiacciamento o altri fenomeni traumatici dovuti alla dinamica di una folla che cade in preda al panico. Inoltre il panico può generarsi e propagarsi pure tra la folla che frequenta il Web, fisicamente composta da individui lontani ma che sono contigui nella Rete, si pensi soltanto al panico in borsa che, una volta innescato, rapidamente copre l’intero mondo. Ma cos’è il panico, come insorge, e si può prevedere e/o prevenire? Alla voce “panico” recita lo Zingarelli: “timore repentino che annulla la ragione e rende impossibile ogni reazione logica”. Quindi, nel senso comune, si tratta di una follia, un impazzimento, ovvero non rimane altro che chiamare gli psichiatri abbandonando ogni speranza di poterlo modellare per via razionale, tanto più con la ragione fisica e/o matematica, per cui i metodi delle scienze esatte sembrano inevitabilmente improvvidi rispetto a un fenomeno che, per definizione, “annulla la ragione”. Però subito sotto nel dizionario compare un altro panico che significa tumore, ascesso. L’origine sta nel dio Pan che incuteva timore ai viandanti apparendo improvvisamente loro davanti: una manifestazione diretta della natura e della divinità che sconvolgeva. Scegliendo questa seconda e meno comune accezione radicata nell’antica saggezza delle parole, possiamo chiederci se le formiche vanno in panico di fronte a un evento violento che colpisce il formicaio o un loro gruppo che sta raccogliendo il cibo. Lo stesso per un organismo, per un aggregato di cellule e persino per la singola cellula. Allora scopriamo che le formiche, le quali paiono impazzite e andare senza ragione in tutte le direzioni a caso per il fuoco che devasta il formicaio, in realtà attuano una strategia di sopravvivenza individuale onde qualcuno della specie si salvi per poter rifondare la colonia, il che vale, in forme e manifestazioni diverse, anche per gli organismi e le cellule, aggregate o singole. In natura il meccanismo del panico interviene in situazioni più o meno estreme come strategia per tentare di garantire la sopravvivenza degli individui, almeno alcuni e al limite uno, che potranno perpetuare la specie o colonia, di cellule tanto quanto di formiche.

    Così (molto grossolanamente) in natura, ma è lo stesso per l’homo sapiens sapiens? Compare qui un punto delicato e cruciale. Il paradigma dell’evoluzione racconta che tutte le specie vivono e prosperano tanto in quanto sono capaci di adattarsi all’ambiente. Tutte meno una, la specie umana, che ha invece adattato l’ambiente a se stessa, appunto costruendo una seconda natura, di cui le città sono forse la realizzazione più completa. Lo strumento principe di questo ribaltamento è stato il cervello particolarmente complesso rispetto a quello degli altri viventi, e insorto quasi all’improvviso in un lasso di tempo breve (rispetto ai tempi dell’evoluzione). Il cervello e quindi la mente e l’intelligenza. Tra l’altro, se nel piano evolutivo della prima natura, la nostra vita media non andava oltre i cinquanta anni, per effetto dell’azione intelligente che adatta la natura a noi, oggi si è spostata sui settanta e oltre. Così come si è moltiplicato il numero degli esseri umani che popolano la Terra fino agli attuali sette miliardi, quando agli inizi del 1900 erano circa un miliardo. Col che il panico come naturale impulso che attiva un meccanismo di salvezza non è scomparso, anche se nella seconda natura tendiamo a limitarlo o dimenticarlo, qualche volta a torto. Per esempio, se a L’Aquila i moltissimi che la sera del terremoto temevano l’arrivo dell’onda d’urto primaria, in specie dopo la scossa molto forte avvenuta intorno alla mezzanotte e dopo molti giorni di sciame sismico che aveva sbatacchiato e incrinato tanto le strutture architettoniche quanto le anime umane, si fossero lasciati prendere dal panico abbandonando le loro case, ebbene i morti sarebbero stati assai meno. Alcuni l’hanno fatto, mentre la grande maggioranza ha ascoltato le ragioni cosiddette degli esperti e dei decisori, come si chiamano in gergo: non fatevi prendere dal panico, restate in casa, il rischio è basso. E invece…

    Il panico nelle situazioni di folla

    Passando ora a una trattazione più specifica del panico nelle situazioni di folla, man mano che la densità degli individui aumenta, il numero dei gradi di libertà di ogni singolo componente elementare diminuisce e nascono fenomeni collettivi. Inoltre avremo diversi stati di affollamento, uno per così dire rado, quando lo spazio sociale, quello della stretta di mano per intenderci, di ogni individuo non è violato, e via via crescendo la densità, uno stato in cui lo spazio sociale viene “invaso”, quindi lo spazio vitale e infine lo spazio fisico in senso stretto, quando i corpi entrano in contatto, s’ammassano e da qui può cominciare il processo di schiacciamento. Ma questa descrizione non basta a farci capire le transizioni dinamiche da stati autorganizzati a stati di panico. Infatti gli stati di panico possono insorgere anche in presenza di folla “rada”, dove può accadere che tutti si precipitino ammassandosi verso un punto, mentre nello stesso spazio, per esempio una piazza, possono esserci ampie zone vuote. E il panico può accendersi anche senza alcun pericolo reale. A volte basta una perturbazione assai piccola, materiale o immateriale, per incrinare la stabilità e l’equilibrio della folla, propagandosi e crescendo poi d’intensità proprio come la frattura di faglia che culmina nel terremoto. Secondo Canetti il panico scatta quando un’azione, in genere esterna, rompe il vincolo di folla. Questa azione può essere prevedibile e messa in conto fin dall’inizio: è il caso, per esempio, di adunanze e/o cortei che possono essere soggetti a una repressione poliziesca volta a scioglierli, oppure imprevista e improvvisa. Mentre nel primo caso il panico può essere tenuto sotto controllo, nel secondo sembra non esserci niente da fare se non contenere gli effetti troppo devastanti tramite accorgimenti tecnologici, videocamere, transenne, porte di sicurezza, pannelli informativi, spartifolla eccetera e/o “politici” (di policy), per esempio, inserendo nella folla dei controllori e/o leader in grado di incanalarla e/o farla defluire in modo ordinato nel momento in cui la dinamica di panico eventualmente si innescasse. I modelli di decisione razionale presenti in letteratura, assai spesso fondati sulla teoria dei giochi, non riescono a tenere in conto l’esistenza e compresenza di molte strategie individuali nella folla, e neppure riescono a spiegare le transizioni improvvise e brusche come quelle da un moto ordinato allo stato di panico. Il nostro punto di vista è invece quello dinamico, modellando un’evoluzione degli stati di folla fino al panico che tenga conto dell’irrazionale, per così dire. Implementando poi gli algoritmi su calcolatore possiamo simulare la dinamica e studiare i parametri di controllo con i rispettivi limiti di soglia tra uno stato e l’altro. Parametri di controllo in linea di principio osservabili sul campo, scontando ovviamente il fatto che, per motivi etici, non si possono fare esperimenti di panico in corpore vivo.

    La rappresentazione della folla come un gas d’automi

    La folla viene da noi rappresentata come un gas di atomi “intelligenti”, ovvero di particelle in grado di processare informazione, tecnicamente un gas d’automi. In quest’ambito ogni decisione dell’individuo-particella è il risultato di processi complessi basati sull’informazione disponibile, sulle esperienze precedenti e sulle sue propensioni. In altri termini ogni automa è dotato di una memoria (il passato), di una visione ( il presente), di una pre/visione (il futuro) e infine del libero arbitrio, meglio free will, la libera volontà, che spesso si modella tramite la probabilità, in specifico la probabilità soggettiva di Bayes-de Finetti. Quindi la dinamica dei nostri automi sarà essenzialmente una dinamica cognitiva, fondata cioè sugli scambi di informazione, sia tra i componenti elementari (particelle), che tra il singolo individuo e l’ambiente, anche se le particelle sono dotate di un “corpo”, ovvero hanno massa e dimensioni, e possono interagire fisicamente tramite urti, oppure “sentire” delle forze dette sociali, per le quali non vale il principio di azione e reazione (forze non newtoniane). Ma, soprattutto, ogni automa è definito dal suo stato cognitivo interno, e da uno spazio sociale, lo spazio permesso agli amici e da cui tendiamo a escludere gli estranei. Alla fine di questo paragrafo vogliamo sottolineare come la dinamica cognitiva stia diventando un paradigma forte nell’ambito delle neuroscienze e, in questa prospettiva, si può dire che lo stato cognitivo interno di un individuo crea una interfaccia tra gli stimoli esterni e la loro elaborazione da parte del soggetto, dalla percezione alle intenzioni e propensioni, fino alla decisione dell’azione da intraprendere, interfaccia che simula in qualche modo l’attività cerebrale. O più fortemente, interpreta l’attività cerebrale come una evoluzione dinamica, e il cervello stesso come un sistema dinamico, per quanto estremamente complesso, forse l’oggetto, con la città, più complesso dell’universo. Per dirla con un grande poeta, William Carlos Williams, “l’idea era di mettere in relazione i molteplici aspetti che presenta una città con le caratteristiche simili del pensiero contemporaneo, in modo da oggettivare l’uomo stesso, così come lo conosciamo, lo amiamo, lo odiamo”.

    A questo proposito enunciamo qui alcune proposizioni/assiomi che costituiscono l’intelaiatura teorica soggiacente il nostro modello:

    a) le decisioni sono sempre mediate dalla attività del cervello (esistenza di uno spazio cognitivo);

    b) c’è una relazione subiettiva non lineare tra l’utilità di una decisione e la probabilità di prendere quella decisione;

    c) in genere c’è una ripulsa del rischio;

    d) l’attività cerebrale può essere rappresentata da un sistema dinamico definito su uno spazio cognitivo;

    e) l’utilità associata a una decisione introduce un potenziale nello spazio cognitivo la cui forma dipende dall’informazione esterna;

    f) lo stato cognitivo è sottoposto a perturbazioni stocastiche (casuali);

    g) le possibili scelte definiscono una partizione dello spazio cognitivo ed esiste un meccanismo di decisione che è funzione degli stati cognitivi.

    Il delicato equilibrio tra razionalità individuale e razionalità collettiva

    Nel nostro schema lo stato cognitivo (in senso lato) di ogni individuo, legato all’informazione soggettiva, è in relazione a una funzione utilità e a una temperatura sociale. La funzione utilità permette di quantificare l’utilità che il singolo si attende da una specifica decisione, nel nostro caso per esempio la scelta di un percorso piuttosto che di un altro. Nella sua dinamica decisionale ogni particella tende a fare quelle scelte che massimizzano la funzione utilità. Questa funzione si costruisce a partire dall’informazione soggettiva di cui l’automa dispone al momento della decisione, ma non è slegata dal contesto. In particolare la sua forma e il suo andamento sono gli stessi per tutti gli individui in una determinata topologia spaziotemporale, seppure può cambiare il suo valore numerico. In qualche modo la funzione utilità rappresenta la razionalità sociale condivisa a un certo tempo e in un certo spazio da un gruppo, e/o da una folla. Come si vede la funzione utilità rappresenta un delicato equilibrio tra aspettative soggettive e contesto oggettivo, tra razionalità individuale e razionalità collettiva. La temperatura sociale misura invece il livello di free will, ovvero è un parametro tipicamente e solo individuale, l’irruzione del puro libero arbitrio soggettivo sulla scena della dinamica. In modo generale e qualitativo possiamo esemplificare cosa sono la funzione utilità e la temperatura sociale con un esempio. Consideriamo Bagnoli quando era attiva l’ILVA. Ebbene la funzione utilità era grande, ovvero allineava molte persone, non solo gli operai, i tecnici e gli impiegati, ma anche le loro famiglie. In un certo senso l’ILVA proponeva e organizzava non solo materialmente, ma anche dal punto di vista cognitivo e dell’informazione, la razionalità sociale condivisa dalla comunità di Bagnoli, dall’identità al sostentamento delle famiglie, dalla partizione del tempo fino alla mobilità. Mentre la temperatura sociale, cioè l’energia legata al free will individuale era bassa (emergeva al più nel tempo cosiddetto libero, ma anche lì pesava l’ILVA), e non contava o contava poco nell’assetto collettivo. Viceversa quando l’ILVA chiuse, il free will prese il sopravvento, mentre la funzione utilità precedente tendeva a zero, e i casi di panico furono molti. Qualcuno arrivò al suicidio, qualcuno finì disperato, qualcuno trovò la camorra, cioè un’altra organizzazione a cui aderire e infine qualcuno si aggregò in nuove forme di autorganizzazione, cioè la funzione utilità diventò più complessa, e la temperatura sociale comunque stabilmente più alta.

    Dovremo poi anche tenere conto delle molteplici continue interazioni con l’ambiente, non direttamente legate alla decisione in corso ma che possono influenzarla. Sono interazioni per definizione impredicibili e che tratteremo come rumore stocastico di fondo. A questo punto possiamo scrivere un’equazione che, mettendo in relazione i fattori osservabili prima indicati (utilità, temperatura sociale, rumore di fondo), descrive l’evoluzione degli stati cognitivi del singolo automa (equazione alla Langevin).

    Egli perde la sua appartenenza al gruppo di riferimento, per cui decide una strategia totalmente egoistica, selfish. E sono sufficienti pochi individui che si pongono in questa condizione caotica perché il panico si diffonda rapidamente in una folla anche molto numerosa, come appunto accadde alla Mecca nel 2006, quando bastarono una decina di persone che cercavano di invertire il loro cammino per provocare il caos e quindi il panico in una folla di circa un milione di pellegrini, con le nefaste conseguenze che abbiamo detto all’inizio.

    Dalla teoria dei modelli alla pratica dei percorsi ottimali in una città come Venezia

    Concludendo, oggi possiamo cominciare a studiare le dinamiche di folla usando un parametro di controllo (il rapporto tra funzione utilità e temperatura sociale in linea di principio misurabili) e osservando le sue transizioni tra ordine e caos, fino al panico. Non solo in fenomeni dove le persone sono in contatto fisico, ma anche in quella folla virtuale a contatto nell’immensa città del Web, dato che nelle piazze come nella Rete, l’informazione e il free will sono comunque i due termini decisivi della partita. Il discorso non è utopico poiché stiamo assistendo a uno sviluppo esponenziale delle tecnologie di localizzazione e comunicazione di cui il singolo individuo può disporre. Tanto che, per esempio, il Laboratorio di Fisica della Città sta progettando, in collaborazione con alcuni ricercatori dello IUAV (Istituto Universitario di Architettura di Venezia) e di Sociologia dell’Università di Milano Bicocca, una sorta di guida individualizzata via Internet per la città di Venezia, dove la folla si accalca quotidianamente, per non parlare dei grandi eventi internazionali, Carnevale, Mostra del Cinema eccetera. Si tratterà di uno strumento per la governance in grado di proporre e recepire agende e percorsi individuali cosicché, iniettando informazione individualizzata nel sistema, si possano ottenere segmenti di autorganizzazione, prevenendo dinamiche di folla straripante, sempre sull’orlo del caos.

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