La parola ai migranti

di Mario Morcellini

Le questioni legate all’immigrazione sono sulla bocca di tutti. Riguardano ormai tutti. Si tratta non solo di un tema da «prima pagina», ma di una issue quasi usurata dalle tante ricerche scientifiche e iniziative correnti che negli ultimi anni, in ambito internazionale e anche in Italia, si sono proposte di esplorare a tutte le latitudini questo territorio emergente dell’esperienza sociale e della convivenza civile.

Qual è e quale dovrebbe essere il contributo dei media alla rappresentazione dei fenomeni migratori? Fino a che punto l’opinione pubblica può essere influenzata da un’informazione spesso imprecisa o incompleta? E ancora: è possibile individuare un terreno proattivo di intervento, in cui si faccia leva sulla capacità dei media di riconciliarsi con un bisogno diffuso di informazione da parte dei loro pubblici? è a questi interrogativi stringenti che cerca di rispondere il libro FuoriLuogo. L’immigrazione e i media italiani (Pellegrini/Rai-ERI). Si tratta dei risultati integrali del Monitor su informazione e immigrazione, la ricerca-intervento promossa dal Dipartimento di Sociologia e Comunicazione dell’Università «La Sapienza» di Roma nell’ambito del progetto comunitario Etnequal Social Communication, in collaborazione con Amnesty International-Sezione Italiana, Caritas Diocesana di Roma, FNSI, Galgano International e RAI.

I nostri anni sono protagonisti, di fatto, di una visibilità senza precedenti della figura dei migranti nelle culture urbane e mediali, con effetti spesso debordanti sulla retina sociale. Rispetto ad altri momenti storici, si deve infatti ai fenomeni di globalizzazione e alla pervasività del sistema mediale un effetto determinante nel potenziare l’imponenza – reale e percepita – dei fenomeni migratori, in un gioco serrato di immagini e di reciproche proiezioni tra realtà e rappresentazione, oltre che tra ideologie e punti di vista spesso antagonisti tesi a confrontarsi nello spazio pubblico. Una dinamica che vede i riflettori della comunicazione costantemente – e spesso impietosamente – puntati sui migranti, fino a farne attori di assoluto primo piano nella quotidiana «messa in scena» della società italiana e del suo cambiamento.

Nella comprensione di queste dinamiche, gli studi culturali e comunicativi – la loro peculiare «cassetta degli attrezzi» – debbono candidarsi a occupare un posto assolutamente strategico. Non è infatti più sufficiente limitarsi all’analisi macroeconomica e demografica dei fenomeni migratori, ma diviene determinante esaminare il modo in cui una società elabora e interagisce ogni giorno con le immagini dell’immigrazione – prima ancora che con i referenti di tali rappresentazioni – attraverso le reti dei media e della comunicazione interpersonale. L’immigrazione tira infatti in campo un fitto intreccio di dinamiche culturali che attengono alla vita quotidiana e alla sfera propriamente micro-sociale: modelli simbolici e di interazione che chiamano direttamente in causa le responsabilità della comunicazione e dei suoi protagonisti.

Dal punto di vista dei processi culturali e comunicativi, quello dell’immigrazione si definisce anzitutto come un campo di relazioni sempre più saturo e «ad alto voltaggio»: una rete di interazioni in fortissimo divenire, la cui intensità energetica è destinata nel tempo ad aumentare quantitativamente e qualitativamente per i singoli e per la collettività. Siamo di fronte a una issue di primaria rilevanza sociale, attorno a cui – non a caso – lo spazio dell’opinione pubblica appare infiammato da orientamenti, punti di vista e polarità divergenti, e rispetto alla quale gli stessi decisori politici continuano a dar prova di clamorose incertezze e contraddizioni nel governare l’ormai irreversibile trasfigurazione multiculturale della società italiana.

Dal canto loro, i mezzi di comunicazione – soprattutto quelli generalisti – risultano oggi responsabili di drammatici ritardi nell’aggiornare non solo i propri linguaggi e stili narrativi, ma lo stesso punto di vista rivolto su fenomeni e realtà il cui background è spesso di difficile conoscenza e «restituzione» al pubblico. Le regole di genere dell’informazione ne fanno il formato certo più esposto ai rischi di semplificazione e pura «ruminazione» di luoghi comuni: soprattutto l’estrema compressione dei tempi redazionali e delle routine produttive tende a favorire, infatti, una copertura in cui è sempre in agguato la tentazione di privilegiare stereotipi, accenti emotivi e scelte pregiudiziali, in una rappresentazione spesso espressionistica dei fatti e dei protagonisti.

Ma, a ben guardare, la questione è assai più complessa di quanto non lascino intendere gli ormai numerosi studi scientifici volti a sottoporre alla «lente di ingrandimento» solo i contenuti dei media e le loro evidenti distorsioni rispetto alla variegata «realtà in movimento dei panorami sociali. E, da parte loro, anche i codici etico-deontologici finora proposti si sono dimostrati inadeguati a promuovere un salto di qualità che esige anzitutto una più volitiva presa di coscienza da parte degli operatori: un cambiamento profondo dei valori e delle stesse culture dell’informazione, saldamente ancorato alla conoscenza dei fenomeni e a una scelta consapevole di responsabilità sociale.

La verità è che la «cittadella mediale» – a tutt’oggi e persino quando si fa portatrice di «buone pratiche» – continua a guardare ai migranti come a soggetti destinati a restare borderline rispetto alle culture autoctone. Ancora una volta, «nuovi barbari» in terra straniera, da sospingere ai confini e ai margini; figure ingombranti, a cui si stenta ancora a riconoscere piena soggettività culturale e cittadinanza nella comunicazione. Una presenza sociale – quella dei migranti – troppo spesso «fuori luogo», perché condannata a un’ormai anacronistica condizione di clandestinità rispetto non solo al territorio e ai contesti geografici (i paesi di provenienza e di destinazione), ma allo stesso spazio simbolico dei media e dei loro pubblici.

La persistenza di questo cono d’ombra nel sistema dell’informazione ha rappresentato finora un caso paradigmatico di impasse culturale che finisce per contraddire e inibire, in modo particolarmente drammatico e cruento, lo spirito stesso della modernità: un irragionevole veto di diritti nei confronti non solo dei migranti, ma di un pubblico italiano ancora eccessivamente disinformato e, molto probabilmente, interessato a saperne di più.

La comunicazione, di fatto, si dimostra la dimensione più pervasiva e caratterizzante del nostro modo di vivere ed essere al mondo, partecipando alla società e alla cultura condivisa: per questa ragione, occorre riflettere in profondità sulla sua capacità non solo di ostacolare, ma anche di assecondare e sostenere proattivamente il mutamento della società e delle persone. è pertanto necessario promuovere una stringente interrogazione critica dei fenomeni, a partire dalla stessa consapevolezza della conoscenza scientifica quale risorsa determinante per l’attività decisionale delle istituzioni.

La comunicazione può diventare, di fatto, il perno stesso e l’elemento-chiave nella costruzione di una società più pluralistica e «a misura d’uomo». Proprio da questa premessa ha preso le mosse il progetto ETNEQUAL. Fin dall’inizio, la comunicazione è apparsa il terreno privilegiato e quasi elettivo di incontro tra soggetti istituzionali apparentemente molto diversi, per un contributo teso in ultima istanza a contrastare il pregiudizio e l’intolleranza diffusa nei confronti dei migranti.

La capacità di incidere sulla cultura rappresenta la variabile fondamentale per un’iniziativa comunitaria come ETNQUAL: un progetto in cui la capacità di produrre, elaborare e scambiare la conoscenza diviene l’elemento cardine per la promozione e la condivisione allargata di mete culturali che non possono essere solo subite e inerziali; di processi di mutamento che vanno accompagnati da opportuni processi di elaborazione e autoriflessione pubblica, rispetto ai quali i media rappresentano oggi l’arena privilegiata e quasi naturale. Un’iniziativa, quella di ETNEQUAL, che ha la forza di rendere possibili azioni progettate e gestite in una logica di rete e di reciproca valorizzazione, in grado di far convergere esperienze e soggetti eterogenei sui grandi obiettivi comuni, su temi assolutamente determinanti per il futuro delle società complesse.

Nell’articolato contenitore di ETNEQUAL, la stessa ambizione di allestire un disegno di indagine di per sé innovativo – perché pensato per esplorare estensivamente le interconnessioni tra i contenuti proposti dai media italiani, le pratiche professionali del giornalismo e gli altri canali di costruzione dell’opinione pubblica – si è accompagnata alla possibilità concreta di favorire una non comune «vocalità della ricerca scientifica: un concreto impatto sulla formazione degli operatori dell’informazione e, in ultima analisi, sulla qualità del dibattito pubblico. Avviata nell’ottobre 2002, la ricerca è stata infatti coronata dall’articolato programma didattico a cura della Caritas Diocesana di Roma, proposto in tutta Italia a giornalisti, studenti delle scuole di giornalismo e operatori del Terzo settore nel corso del 2003. A questa fase di formazione ha fatto quindi seguito la realizzazione di una serie di attività promosse e coordinate dalla RAI: due workshop con programmisti e registi alla fine del 2003 e, soprattutto, la campagna informativa radio-televisiva Nessuno è fuori luogo nel 2004.

Si è trattato di un «pacchetto» di iniziative pensate per dialogare serratamente con i risultati della ricerca coordinata dall’Università. Attraverso la formazione e la comunicazione «praticate», è stato così possibile promuovere una fitta rete di interazioni, che dei «numeri» e delle percentuali hanno finito per restituire interessanti forme di rielaborazione comune e rappresentazioni spesso di sorprendente espressività, anche mediatica. è così che ETNEQUAL ha offerto l’opportunità di esperienze e collaborazioni di importanza certo singolare: un valore aggiunto che si deve alla passione di tutti i soggetti istituzionali coinvolti, oltre che alla straordinaria generosità di oltre cento tra docenti, giovani ricercatori e studenti.

Più analiticamente, l’azione di ricerca ha inteso prendere in esame non solo il messaggio mediale sull’immigrazione, ma anche i contesti umani e sociali che lo producono e lo ricevono. Attraverso un ampio dispiegamento di strumenti teorici e metodologici d’analisi, il Monitor ha puntato programmaticamente a mettere a fuoco la circolarità – fatta di interazioni e retroazioni reciproche – tra Notizie, Redazioni e Pubblico.

Si è trattato di un tentativo di testare a tutto campo la tenuta dei saperi sulla comunicazione, attraverso la lente di ingrandimento offerta da un tema-chiave tra i più emblematici ed emergenti. Ci si è posti anzitutto il problema di comprendere quanto e fino a che punto la comunicazione possa fungere da elemento moltiplicatore delle relazioni di socialità, solidarietà, comunanza di senso. Non c’è dubbio infatti che, nel tempo, l’offerta dei media si sia arricchita di uno straordinario valore di espressività e di scambio sociale, al di là dei formati in cui essa si presenta enfaticamente sotto forma di pura informazione, intrattenimento, finzione.

Va da sé che il riconoscimento di una vocazione e di uno spessore sociale ai messaggi e ai «rituali» dei media implica lo sforzo intellettuale di ripensare a fondo gli stessi paradigmi teorici e di ricerca, anche ai fini di un loro più incisivo contributo al rinnovamento dei contenuti e dei profili che formano le professioni della comunicazione. Si è cercato di superare il luogo comune che vede operatori e studiosi della comunicazione misurarsi sul terreno della contrapposizione, per promuovere un percorso di riflessione comune a partire dalle evidenze di ricerca. Non un «processo ai media», quindi, ma un confronto aperto, teso a mettere più nitidamente a fuoco gli aspetti di criticità e le radici stesse della discriminazione nell’offerta di news, individuando insieme i percorsi possibili del loro stesso superamento.

L’immigrazione da destino collettivo a progetto, dunque. E se si vuole davvero sconfiggere il pregiudizio, lavorare sulla comunicazione è tutt’altro che un palliativo, ma un’azione positiva resa vincente da un pensiero universale.

Mario Morcellini è preside della Facoltà di Scienze della comunicazione dell’Università di Roma «La Sapienza».

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