LA FIERA COME AGENZIA DI COMUNICAZIONE E FORMAZIONE

di Luigi Roth

Si fa tanto parlare della dimensione virtuale di qualsiasi cosa abbia a che fare con la vita quotidiana, dal lavoro al tempo libero, dall’incontro allo scambio, che sembra quasi una irrinunciabile opzione di valore se non un destino incombente e inevitabile. Tuttavia, così come si continua a parlare e a scrivere, nonostante la moltiplicazione dei terminali che ci vorrebbero costringere alla digitalizzazione di ogni messaggio, così resto fermamente convinto che la dimensione virtuale abbia senso e possa esprimere tutte le sue potenzialità solo in un rapporto sistematico e creativo con la dimensione reale, quella delle cose e delle persone che si guardano, si ascoltano, si toccano: in una parola, che si fanno carico responsabilmente del proprio modo di essere e di avere, senza mistificazioni o illusorie fughe in avanti.

Né si tratta di una considerazione che concerne soltanto la vita individuale, in quanto sempre più sta diventando una cartina di tornasole per valutare le potenzialità dei cosiddetti sistemi complessi, che sono tali non perché tendano a «virtualizzare» i concreti contesti operativi, ma anzi perché tali contesti tendono a interpretare e a gestire in maniera più aperta e articolata, dando voce a tutti i suoi protagonisti e lasciandone emergere tutte le istanze nella specificità dei loro mutevoli regimi di rappresentanza.

L’esperienza che si sta affrontando in questi anni a Fiera Milano, con le sue molteplici dimensioni istituzionali, organizzative, finanziarie, urbanistiche e progettuali, costituisce una dimostrazione lampante ed emblematica di questo assunto: e non soltanto una dimostrazione, ma una sua concreta e programmatica realizzazione.

La missione di Fiera Milano è cambiata negli anni, adeguandosi ai tempi e al mercato: da fiera campionaria a fiera specializzata; da semplice vetrina di prodotto a momento indispensabile di comunicazione e di scambio per le aziende di tutto il mondo. è cambiato parallelamente il suo ruolo economico e sociale, che incide in maniera cospicua sul territorio, ma che è anche diventato un protagonista della globalizzazione. Che si misura su quanto è in grado di dare, in termini di risorse e di opportunità, ma anche su quanto riesce a non prendere, in termini di qualità della vita.Il progetto della nuova Fiera Milano riflette la complessità dell’incontro e dello scambio a livello globale.

Un recente studio di Fondazione Fiera Milano ha evidenziato come la sua attività espositiva generi un indotto pari a oltre 2 miliardi di euro l’anno, in ragione dei servizi che richiedono gli espositori e i visitatori. Per contro, una città come Milano non può farsi ulteriormente carico di manifestazioni sempre più frequenti e pesanti. è cambiata la vita nella città: il quartiere fieristico urbano oggi è congestionato dagli edifici che lo circondano, mentre d’altro canto il quartiere cittadino – e la città intera – soffrono per l’impatto dei veicoli utilizzati e delle persone coinvolte dal nutritissimo calendario espositivo.

Per risolvere in maniera originale e produttiva questa strutturale contraddizione, che stava alterando gli equilibri tra la promozione e la congestione, è stata rapidamente messa in cantiere, con le modalità previste dalla nuova legge obiettivo e nella forma del general contractor, la realizzazione di un nuovo Sistema Fiera composto da due quartieri espositivi: il Polo Urbano, ridotto e riqualificato, che costituirà un inedito volano progettuale per l’intera città, e il Nuovo Polo di Fiera Milano, che sorgerà in un’area di circa 2 milioni di metri quadrati, nel territorio dei Comuni limitrofi di Rho e di Pero.

Anche questo progetto, come tutti i grandi progetti che coinvolgono un vasto ambito territoriale e una comunità estesa e diversificata, si basa su tre fattori decisivi, che riguardano tanto gli obiettivi da conseguire, quanto le relazioni tra i diversi soggetti coinvolti. In primo luogo, una consapevole assunzione della responsabilità operativa che grava su Fondazione Fiera Milano e che comporta l’impegno di arrivare sino in fondo senza rinunciare a nessuno dei vantaggi previsti e senza perdere nessuna delle battute programmate. In secondo luogo, la condivisione di questo progetto con le istituzioni che sono protagoniste, insieme a Fondazione Fiera Milano, della ristrutturazione e della rivalutazione territoriale. In terzo luogo, la volontà di fondare il lavoro sul valore dell’ascolto, che è il motore di una cultura della comunicazione in grado di interpretare la complessità del mondo in cui viviamo e soprattutto le nuove dimensioni in cui si proietterà l’attività fieristica.

Ieri si diceva che Milano, alla stregua di altre grandi città europee, possedeva una marcia in più, anche grazie all’effetto moltiplicatore che Fiera Milano ha esercitato ed esercita sulla città. Una fiera, infatti, è in grado di promuovere le attività produttive e commerciali locali, ma non soltanto, accrescendone la competitività sul piano nazionale e internazionale. Domani lo stesso discorso, relativo alla promozione territoriale, sia diretta sia indiretta, si potrà fare, in maniera anche più rilevante e incisiva, per l’intera area pedemontana lombarda e oltre: quella che, nel suo insieme, viene giustamente considerata come una «grande impresa territorialmente diffusa», che conta oltre un milione e mezzo di posti di lavoro.

Questo passaggio veramente epocale da una visione centripeta a una visione centrifuga della convivenza, non avviene – è ovvio – senza problemi e senza la consapevolezza degli impegni che comporta. Ma si tratta di problemi che portano in sé le proprie soluzioni, purché si sappia decifrarli opportunamente. Il primo problema è quello di ridisegnare la mappa della comunicazione con il mondo nell’epoca della velocità. Il secondo problema è quello relativo a ciò che questa insistita, ma forse non sempre abbastanza meditata, accelerazione comporta, in termini di opportunità e di disponibilità. Vale a dire, la possibilità che la nuova Fiera diventi una vera e propria agenzia di formazione alla globalizzazione del Sistema Italia.

Si tratta di due aspetti cruciali, che si integrano reciprocamente e vanno oltre la pure fondamentale considerazione delle «ricadute», di tutti quegli apporti che la Fiera nella sua normale e quotidiana attività conferisce al territorio sul piano dei contributi economici e occupazionali, della sollecitazione alla crescita dell’intero tessuto produttivo. In effetti, la Fiera come agenzia di comunicazione e di formazione si proietta più lontano. Non sugli indiscutibili benefici immediati, ma sulle sinergie strategiche che legano il processo innovativo di uno dei soggetti di riferimento dell’area lombarda, Fiera Milano appunto, ai processi innovativi, sul piano sociale, economico, culturale, ma anche e forse soprattutto istituzionale, del suo retroterra: che non è «la terra che sta dietro», quella da cui si viene, ma «la terra che sta davanti», terra da scoprire, da interpretare, da dissodare in ogni senso. Ciò comporta non soltanto la predisposizione delle necessarie infrastrutture viarie, metropolitane, ferroviarie. Comporta anche la consapevolezza delle positive conseguenze che questo intervento concomitante – del «levare» nel quartiere al centro di Milano e del «mettere» nella sua periferia – assumerà per l’intera rete di imprese piccole, medie e grandi. Quelle imprese che nella fiera trovano non soltanto una moderna «piazza» per effettuare i loro scambi all’ingrosso o al dettaglio, ma anche una vetrina per farsi conoscere e per conoscere, per confrontarsi con quanto avviene vicino e lontano, per comprendere meglio dove, come e perché si può andare avanti.

è appunto in questa prospettiva che va valutata anche la determinante e accelerata adozione dei servizi di rete, in ragione della quale la «mobilità virtuale può associarsi alla «mobilità reale e il dialogo cominciato sul posto può proiettarsi altrove e prolungarsi nel tempo.

Quanto alla formazione, bisogna tenere presente una duplice istanza «vettoriale». Infatti, alla attenzione rivolta alla globalizzazione, che si può discutere, ma alla quale non ci si può sottrarre pena l’emarginazione, si aggiunge quella rivolta al localismo inteso come una assunzione di responsabilità nei confronti della complessità del reale. Si dice che la complessità sia l’effetto di una eccessiva vicinanza dell’altro, quando ciò che prima stava fuori e lontano irrompe nell’ambito della identità personale e costringe a fare i conti con il cambiamento di tutti i riferimenti deputati. Ma vorrei aggiungere che complessità è anche l’effetto di una critica presa di distanza dal proprio, quando ciò che prima stava dentro e implicito torna a manifestarsi come qualcosa che richiede di essere nuovamente preso in considerazione, come un programmatico confronto con se stessi.

Per quanto paradossale, sono convinto che il confronto con il proprio non sia meno difficile e impegnativo del confronto con l’altro, se si tratta di rischiare, di intraprendere, di cambiare davvero, nel quadro mutevole di una modernità troppo spesso annunciata e mai abbastanza condivisa.

Non a caso, tra le primissime iniziative di Fiera Milano, nel dare il via al progetto del nuovo Polo, si deve registrare la istituzione di una «scuola», più precisamente di un Master postuniversitario, per preparare giovani laureati nelle più diverse discipline alla gestione dei sistemi complessi. Cioè, appunto, alla capacità di confrontarsi in maniera permanente, programmatica e creativa con le istanze di cambiamento del proprio e dell’altro, di ciò che avviene alla porta di casa e di ciò che si prepara agli antipodi. Che una volta era un modo di dire e ora è un modo di fare, se si considera su quante imprese non tramonta mai il Sole. E non a caso, nella discussione sulla consistenza e sulle caratteristiche del Polo urbano, si è ritenuto di chiamare a raccolta non soltanto le cosiddette competenze deputate – dagli urbanisti agli esponenti istituzionali, dai rappresentanti delle diverse componenti sociali ed economiche agli operatori della informazione -, ma è stata sollecitata la stessa pubblica opinione, coinvolgendola in una sorta di «gioco della città, questo sì davvero virtuale, che in varie occasioni espositive ha consentito ai visitatori di esprimere e rappresentare il proprio sogno: perché da tanti sogni potesse scaturire, con consapevolezza e determinazione, una realtà condivisibile e condivisa.

A questo proposito, vorrei concludere ricordando una curiosa e poco nota considerazione di Marshall McLuhan, il celebre studioso dei moderni strumenti per comunicare, quello che ci ha insegnato che «il mezzo è il messaggio». McLuhan, parlando di come fare fronte alla congestione metropolitana scaturita dalla civiltà industriale, portava a esempio una ipotetica Milano senza automobili, per affermare che sarebbe diventata una «città fantasma». In questo modo paradossale, voleva sottolineare l’importanza che, in un sistema complesso come quello di una città, ogni intervento tenesse conto di tutti i fattori in gioco, anche di quelli più scontati o meno evidenti.

Proponeva quindi l’idea della «città come aula», un luogo di cui si devono costantemente decifrare i segni molteplici e mutevoli, per imparare a vivere in armonia con se stessi e con gli altri. Nella «città come aula» l’incontro, l’ascolto, lo scambio costituiscono in effetti i presupposti di una convivenza capace di proiettarsi in un futuro comune. Che rappresenta il modo più efficace e garantito per trasformare il «messaggio» in un «mezzo» non soltanto di comunicazione, ma anche di civile e valida convivenza.

Related Posts
Total
0
Share