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    La chiave e la serratura

    Anche quando sembra dividere e non unire, nel simbolo natura e cultura confluiscono, evidenziando le logiche fondamentali della vita, come quella delle diversità compatibili.

    di Gian Piero Jacobelli

    Non perché le pagine dei nostri quotidiani siano, spesso indebitamente, piene di corna: epiteti o giochi di mano che restano giochi da villano, ma che persino nelle fotografie istituzionali si affacciano di tanto in tanto, con sospettabile frequenza. Se ne parliamo non è perché, ancora oggi, con le corna e con le tensioni che comportano o provocano, dobbiamo fare i conti, nella misura in cui intorno alle corna si giocano tante partite doppie, che, proprio come le corna, possono venire giocate in un senso o nell’altro, a torto o a ragione, secondo natura o contro natura e anche secondo cultura o contro cultura. Avendo appena pubblicato un saggio dedicato proprio al fatidico segno della mano (La corna. Antroposemiotica della mano cornuta come offesa e come difesa, Bevivino Editore), ci siamo resi conto che, per quanto gli animali le usino spesso per difendere la propria vita, le corna più che al combattimento e alla eliminazione dell’avversario alludono al sesso, cioè alla esigenza di produrre un’altra vita. In effetti, le corna sono un simbolo che associa cose o, nel caso dell’insulto, persone tendenzialmente destinate a restare separate: un vaso (di Pandora?) nel quale, come nel caso del capro espiatorio, raccogliere i mali che sopravvengono, periodicamente o sul momento, e che si vogliono mettere fuori, nel deserto dove abita il diavolo, colui che etimologicamente divide. Al contrario, le corna, nella loro univoca duplicità, ma anche nella loro ambivalenza funzionale (per offendere, verso l’alto, o per difendere, verso il basso, come nella celebre metafora aristotelica della coppa e dello scudo: la stessa cosa, concepita una volta per accogliere, un’altra volta per respingere), si dividono per riunire: chi aggredisce e chi è aggredito, chi sta al gioco e chi non sta al gioco. Non a caso, in quel saggio parliamo della corna e non delle corna, di una forma “organica”, nella quale ci si può inserire e ogni inserimento, è ovvio, comporta una relazione. Per concludere, appunto, che in fondo ogni insulto, in primis quello rappresentato dalla corna, non costituisce un momento di chiusura, ma un momento, per quanto paradossale, di apertura relazionale.

    Un quadro provocatoriamente crittografico

    Nulla di nuovo sotto il sole: molti animali, quando sono attaccati, assumono una posizione di passività, la posizione della femmina rispetto al maschio, per bloccare le pulsioni aggressive dell’animale più forte, che in effetti si accontenta della “sottomissione” virtuale dell’animale più debole. Non si pensi, tuttavia, che il simbolo della corna costituisca una sorta di residuo sclerotizzato (istintuale) della nostra origine animale, come il coccige o l’appendice, o che, passando dalla natura alla cultura, rifletta, come alcuni pure pretenderebbero, qualche presunta interpretazione pastorale dei comportamenti animali (in particolare del becco, che non reagirebbe al tradimento delle proprie capre). Il simbolo guarda in avanti, non in dietro: così in avanti, che qualche volta finisce addirittura per “cambiare segno”, giocando sia sui significati, sia sui significanti. In effetti, se noi abbiamo ipotizzato allusive convergenze in un simbolo che per lo più era servito a rappresentare le divergenze, altri hanno benedetto il diavolo con l’acqua santa, scoprendo le tracce delle corna dove nessuno avrebbe potuto sospettarle.

    Stiamo parlando di uno dei quadri più celebri e più imitati della tradizione occidentale, che, nonostante appaia in tutte le storie dell’arte come il “doppio ritratto” dei presunti coniugi Arnolfini, firmato da Jan van Eyck, da qualche anno è incorso in un incredibile capitombolo semiotico. Perché doppio? Forse perché i due apparenti protagonisti ne celano un terzo, a sua volta doppio, come vedremo. Eppure, il grande iconologo Erwin Panofsky, oltre settant’anni fa, aveva sostenuto che quel quadro – celebre non solo perché affascinante e misterioso, ma anche perché per la prima volta ritraeva in uno specchio sulla parete di fondo, sotto la sua evidentissima firma, lo stesso pittore, anticipando la rivoluzione della rappresentazione classica, che oltre due secoli dopo troverà una straordinaria consacrazione nell’altrettanto celebre quadro di Velazquez, intitolato Las Meninas – rappresentava la fedeltà: un marito e una moglie, o forse due promessi sposi, che avrebbero voluto testimoniare pubblicamente la promessa o il vincolo che li univa, in contesto così agiato da suggerire come Dio stesso avesse premiato quella fedeltà con un’abbondanza di benedizioni.

    Certo, dopo Panofsky qualche dubbio era stato avanzato, sulla base di una ulteriore documentazione, soprattutto in merito alla identificazione dei due personaggi, che non avrebbero potuto essere i coniugi Arnolfini, sposatisi solo vari anni dopo quel “1434” chiaramente visibile vicino alla firma. Ma, se non gli uni, forse gli altri: se non Giovanni di Arrigo e Giovanna Cenami, forse il cugino Giovanni di Nicolao e sua moglie Costanza Trenta, che però era morta un anno prima. Così i dubbi hanno continuato ad affastellarsi, prendendo di mira non solo le incerte attribuzioni biografiche, ma anche il senso complessivo della rappresentazione simbolica, la sua “isotopia”, come si dice tecnicamente, alludendo al motivo unificante da cui prende origine qualsiasi racconto, in letteratura o in pittura: ed è scoppiato lo scandalo. Non di fedeltà si tratterebbe in quel quadro, ma proprio del suo contrario: di una storia di corna, di una infedeltà spudoratamente, anche se allusivamente dichiarata.

    Lo spudorato, ironico e geniale van Eyck

    Vari studiosi hanno ipotizzato che la stessa firma, quel Johannes de Eyck fuit Hich, alludesse a un esserci ironico e improprio, alla faccia, o meglio alla corna dello scontroso protagonista. Lo lascerebbero cripticamente intendere molti dei curiosi particolari di arredo, dal lampadario su cui è accesa una sola candela (e si sa quante allusioni connesse ai momenti importanti della vita siano implicite nell’accendere e nello spegnere le candele, spesso da parte di persone diverse), al mostro bifronte scolpito sul bracciolo del rosso divano, che sembra guardare da una parte e dall’altra, ma che in realtà guarda sempre verso il pittore, mentre dipinge il quadro e mentre si dipinge nel quadro, nello specchio di fondo, come rileva con puntuale acribia Tarcisio Lancioni in Impertinenze, et al. edizioni, 2010.

    Né mancano le corna, anche se non sembrano tali, in forza di quella incessante metamorfosi dei simboli che ne spiega la lunga durata e la riemergenza carsica (si sa che le metamorfosi, anche nel regno animale, servono a presidiare diversi spazi vitali e, quindi, a moltiplicare le opportunità di sopravvivenza), rendendone inoltre plausibile la migrazione dall’alta alla bassa cultura e viceversa, anche in ragione della ironia implicita nella logica “a contrario” di ogni creazione artistica e in particolare di quella di van Eyck. Si guardino con attenzione quelle improbabili pantofole che fanno tanto incongrua quanto sorprendente mostra di sé e che secondo Panofsky segnalerebbero la sacralità del luogo mentre, secondo le nuove interpretazioni, riguarderebbero molto più realisticamente la disponibilità della donna (le pantofole rosse in fondo, aperte “in avanti”, verso l’invitante e sanguigno divano) e il raggiro dell’uomo (le pantofole bianche, in basso, aperte “in dietro”, anche se l’uomo in tutta evidenza tiene i piedi divaricati). Non può sorprendere il freudiano spostamento dall’alto al basso, dalla testa ai piedi, di un accessorio così intimo e così “cornuto”, almeno dal punto di vista formale (ciò che si apre in un verso, si chiude nell’altro) e funzionale (non si dà un contenente senza un contenuto, e viceversa). Uno scherzo? Forse, come il grande cappello dell’uomo, certo un poco fuori posto in una camera da letto, che chi sa quale oraziano onore della fronte dovrebbe coprire.

    Saranno pure ipotesi, se non eccessive, almeno eccedenti e miranti a confutare un ideologico perbenismo esegetico e a valorizzare la licenziosità creativa del pittore. Tuttavia, se ogni simbolo presuppone anche un simbolo del simbolo, proprio quel grande cappello contrapposto a quel grande lampadario ci fa pensare che Van Eyck abbia soprattutto voluto rappresentare il grande mistero di un mondo la cui complessità può venire ridotta al principio definito da chimici e biologi “della chiave e della serratura”, del convesso e del concavo, di ciò che penetra e di ciò che viene penetrato. Un principio che consente a ogni cosa, piccola o grande, di unirsi alle altre, non perché uguali, ma perché compatibilmente diverse. In quel quadro davvero mirabile – che in questo modo diventa un volano concettuale per muoversi opportunamente dalla dimensione antropologica a quella biologica, dalla cultura alla natura e viceversa – più che una offesa nei confronti di qualcuno, preferiamo leggere una difesa contro ogni pensiero unico e prepotente: la difesa programmatica di quella diversità, che è indiscutibile condizione perché la vita possa continuare a produrre nuova vita, in ogni senso possibile.

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