La biologia di sintesi

Per oltre un decennio, i biologi sintetici hanno sperato in un rivoluzionario cambiamento nel modo di produrre nuovi carburanti, composti chimici e farmaci. Ma programmare nuove forme di vita si è rivelato più arduo del previsto. Oggi alcuni di loro guardano alla natura per trovare l’ispirazione giusta.

di Michael Waldholz

Gregory Verdine

George Church ha una figura imponente: oltre un metro e novanta di altezza, volto ampio e rettangolare circondato da una matassa grigiobruna di barba e sormontato da una folta capigliatura. Dalla metà degli anni Ottanta ha avuto un ruolo pionieristico nel campo della sequenziazione del DNA e tra i suoi traguardi c’è anche un forte contributo organizzativo al progetto Genoma Umano.

Per raggiungere il suo studio nella Facoltà di medicina di Harvard si devono attraversare laboratori affollati dalla cinquantina e più di studenti di dottorato e post-dottorato, che Church coordina nella sua veste di responsabile del Centro di genetica computazionale della stessa Facoltà. Passando per l’anticamera che ospita i suoi assistenti, incontro Church alla sua scrivania, seduto di spalle, chino su un notebook che lo fa apparire ancora più imponente di quello che è.

L’importanza di Church è relativa al suo ruolo tra i più influenti nel campo della biologia sintetica, un approccio ambizioso e radicale all’ingegneria genetica, che si prefigge di creare inedite entità biologiche ̶ qualunque cosa dagli enzimi fino alle cellule e ai microbi ̶ mettendo insieme le conoscenze dalle biologia e dell’ingegneria. A Church e al suo laboratorio viene attribuito il merito di molte scoperte in materia di controllo e generazione sintetica del DNA, che oggi aiutano altri ricercatori a modificare microorganismi per ottenere nuovi carburanti e nuovi farmaci.

Quando gli chiedo di descrivermi il concreto impatto della biologia sintetica sulla vita di tutti i giorni, Church si allunga sulla sedia, incrocia le mani dietro la nuca e afferma: «Cambierà tutto. Per merito della biologia sintetica vivremo più sani e molto più a lungo. Puoi contarci».

Una certa grandiosità non è estranea ai praticanti dell’arte della biologia sintetica. Da una decina d’anni a questa parte, vale a dire da quando Church e un gruppetto di altri ricercatori hanno cominciato a mescolare biologia e ingegneria, la promessa è stata di “cambiare tutto”. Per forza. La stessa idea alla base della biologia sintetica consiste nell’ingegnerizzare il DNA degli esseri viventi in modo che possa svolgere operazioni impossibili in natura.

Sebbene si stia parlando di ingegneria genetica fino dagli anni Settanta, la repentina caduta dei costi legati alla decodifica e alla sintesi del DNA, unita al forte aumento di capacità di calcolo e all’ingresso d’ingegneri e informatici nei laboratori di biologia, ha portato a un sostanziale cambiamento delle tecniche usate per modificare il patrimonio genetico di un organismo. Church afferma che queste tecniche ci porteranno a fare scoperte di ogni tipo: saremo in grado di sostituire tessuti e organi malati riprogrammando le cellule per generarne di nuovi, o di creare batteri in grado di secernere nuovi carburanti e altre sostanze chimiche, o costruire con il DNA degli interruttori capaci di attivare un determinato gene nelle cellule di un paziente per prevenire l’ostruzione delle arterie.

Anche se molte di queste applicazioni sono ampiamente di là da venire, Church ha la capacità di snocciolare le sue previsioni con la massima nonchalance. Non è difficile capire le ragioni del suo ottimismo: il costo delle operazioni di decodifica o di sintesi di nuove stringhe di DNA sta precipitando, secondo i suoi calcoli, a una velocità pari a cinque volte la crescita della potenza di calcolo in base alla Legge di Moore, secondo cui il rendimento dei microchip sarebbe raddoppiato ogni due anni circa.

Gli esperti coinvolti nella biologia sintetica, che spesso amano ricorrere a metafore di tipo informatico, direbbero che leggere e scrivere nel codice della vita sta diventando esponenzialmente più facile. Le attuali tendenze tecnologiche, prosegue Church, si traducono in una vera e propria esplosione di esperimenti che solo pochi anni fa non sarebbero stati neppure immaginabili.

Fino a questo momento, tuttavia, è risultato ostinatamente difficile fare della biologia sintetica una tecnologia di uso pratico, capace di generare prodotti come i tanto attesi biocarburanti a basso costo. Gli scienziati hanno imparato che il “codice della vita” è assai più complesso e difficile da decifrare di quanto si sarebbe potuto immaginare dieci anni fa. Inoltre, mentre è facile riscrivere questo codice, farlo senza errori non lo è affatto. Ricercatori e imprenditori sono riusciti a “ingannare” batteri o cellule di lievito per fare loro produrre sostanze utili, ma poi è risultato difficoltoso ottimizzare tali procedimenti rendendoli abbastanza efficienti da competere con altri prodotti commerciali.

Fedele al suo stile, Church non fa una piega. A 57 anni è riuscito a sopravvivere a un cancro e a un attacco di cuore; soffre inoltre di dislessia e narcolessia; prima che lo andassi a trovare, uno dei suoi colleghi mi aveva avvertito di non sorprendermi se me lo fossi visto crollare addormentato davanti. Ma ha anche contribuito a fondare o a gestire più di 50 startup e nel corso della nostra conversazione è rimasto sveglio, evidentemente eccitato dalla prospettiva di potermi raccontare come il suo laboratorio sia riuscito a trovare il modo di mettere a frutto le tecniche di sequenziazione ultraveloci, imprimendo una forte accelerazione alla biologia sintetica.

Tra i suoi numerosi progetti, Church ha inventato una tecnica per la sintesi rapida di nuove stringhe di DNA e per la loro introduzione nel genoma batterico. In uno di questi esperimenti, i ricercatori sono riusciti a produrre quattro miliardi di varianti di E.coli in un solo giorno. Nel terzo giorno, è stata individuata una variante in cui la produzione di una determinata sostanza chimica aumentava di cinque volte.

L’idea, spiega Church, è di mettere in fila le varianti fino a scoprire «l’occasionale anomalia in cui tutti speravano, proprio come l’evoluzione ha fatto per milioni di anni.» Imitando in laboratorio un’operazione che la natura porta a termine nell’arco di un’era geologica, si ottiene a suo dire un radicale aumento delle probabilità di scoprire il modo per costringere i microbi a fare cose nuove in modo più efficiente.

Come “accendere” il DNA

Per certi versi, le difficoltà incontrate dagli scienziati nel realizzare forme di vita innovative e più utili non sono una grande sorpresa. Anzi, una delle lezioni che abbiamo imparato dalla ricerca genomica nell’arco di alcuni decenni è che, a dispetto di come il codice del DNA possa sembrare compatto e lineare, la biologia che ne deriva si dimostra più complessa del previsto. Quando ho iniziato a raccontare i primi giorni della scoperta dei geni, una trentina di anni fa, i biologi, come spesso fanno, erano soliti pensare in modo riduttivo.

Quando veniva scoperto un gene associato a una malattia, uscivano titoli in prima pagina. Gli scienziati si dicevano convinti dell’imminente arrivo di nuovi, potenti farmaci in grado di disattivare la variante patologica dei geni, o di sostituirla, nell’organismo, con la versione sana.

Anche le prime aziende di biotecnologia avevano utilizzato l’approccio “un-gene-alla-volta”. Si trattava di isolare un gene che produceva una determinata proteina, come l’insulina, e successivamente applicare le tecnologie di frammentazione inventate negli anni Settanta per “spezzare” la catena del DNA di un batterio e inserirvi il gene associato alla proteina. Sulla base di questa tecnica si è sviluppata la moderna industria biotech.

Per alcuni, un concetto del genere aveva poco a che fare con l’ingegneria. «Non abbiamo mai pensato che in tutto ciò ci fosse più ingegneria di quella necessaria per sostituire una lampadina verde con una rossa», ammette James Collins, bioingegnere della Boston University, al quale viene in parte attribuito il merito di avere fondato la biologia sintetica nel 2000. «Molti di noi ritenevano che lavorare a livello di singolo gene fosse solo il punto di partenza e che occorresse escogitare il modo di “mettere in rete” i geni che stavano emergendo nel corso del Progetto Genoma umano, creando tracciati e circuiti all’interno delle cellule». In confronto, conclude Collins, «la biologia sintetica è ingegneria genetica pompata con gli steroidi».

Ho incontrato Collins nel suo studio, che si affaccia sul campus della Boston University, in una piovosa giornata di inverno. è un narratore entusiasta, prodigo di dettagli, continue digressioni e pettegolezzi. E all’età di 46 anni ha vissuto tutte le fasi del concepimento e della nascita della biologia sintetica. Mi ha confessato come egli stesso e altri bioingegneri della generazione di fine anni Novanta si sentissero tagliati fuori da quella che alcuni consideravano la maggiore scoperta scientifica dell’epoca, la sequenza del genoma umano. Allora sembrava che a copertine alterne la rivista “Scienze” annunciasse qualche nuova straordinaria scoperta sui geni. Al crescere delle informazioni sul DNA ancora da analizzare, che andavano accumulandosi negli archivi dei computer, diventava tuttavia sempre più chiaro che i biologi non avevano alcuna idea di come queste componenti genetiche potessero lavorare tutte insieme. Dice Collins: «Ci sentivamo come bambini rapiti davanti alla vetrina del negozio di caramelle, tutti lì a chiederci come si potesse entrare».

Collins era intenzionato a studiare i processi interni alle cellule, mettendo i geni in connessione tra loro e non spezzettandoli. Il primo passo fu quello di realizzare una sorta di interruttore biologico. L’interruttore è un meccanismo genetico a due stati possibili: nel caso dell’interruttore della luce, “acceso” o “spento”. Nell’interruttore di DNA che Collins riuscì a realizzare insieme ai suoi collaboratori, ciascuno dei due geni contigui inseriti nel genoma di un batterio era in grado di produrre una specifica proteina se “acceso”. Il “cirtuito” era fatto in modo che ciascuna proteina aveva il potere di bloccare la produzione della proteina dell’altro gene, così che una volta “acceso” il gene numero 1, avrebbe inibito il gene 2 e viceversa. Con l’aiuto di opportune sostanze chimiche o di impulsi di natura termica, Collins era in grado di passare da uno di questi stati all’altro.

L’interruttore di DNA funzionava in pratica come un transistor in grado di memorizzare un bit di informazione. Inoltre, rappresentava una sorta di omologo ingegnerizzato dello stesso tipo di anello di reazione che spesso determina se una cellula deve crescere, dividersi o morire. «L’idea che fosse possibile realizzare un circuito con componenti biologiche, ci diede una grossa spinta nel lanciare la disciplina della biologia sintetica», precisa Collins. I primi risultati furono pubblicati nel gennaio del 2000.

Molto presto quel primo interruttore fu seguito da una lista sempre più lunga di circuiti di DNA, tra cui biosensori, oscillatori, contatori batterici e altri gadget su scala molecolare. Venne persino creato dai ricercatori un Registro delle parti biologiche standard: 7.100 diverse strutture di DNA disponibili su ordinazione. Gli scienziati erano eccitatissimi alla prospettiva di una biologia modulare e prevedibile, come qualcosa da realizzare con i mattoncini Lego o sulla base di un codice software. Molti decisero di aprire una startup nella speranza di riuscire un giorno a mettere in vendita una tecnologia capace di fabbricare farmaci, carburanti e altri prodotti.

Se il paragone con i principi teorici della programmazione del computer era una fonte di ispirazione per molti ricercatori, tutti questi confronti tendevano tuttavia alla eccessiva semplificazione di una scienza biologica che si era dimostrata tutt’altro che prevedibile. Per cui, molte delle previsioni avanzate a suo tempo da alcune startup del settore della biologia sintetica si sono rivelate davvero troppo ottimistiche.

La corsa alle possibili applicazioni commerciali è stato un grosso errore, ritiene oggi lo scienziato. «Le aziende stanno portando via ossigeno all’intero comparto», afferma, poiché le startup hanno assunto stuoli di genetisti portandoli via ai laboratori delle università, mentre i giovani ricercatori «dovrebbero piuttosto restare nei laboratori accademici per lavorare alle nuove tecniche di ingegnerizzazione della biologia». Collins teme in pratica che la corsa agli aspetti applicativi di queste nuove tecnologie possa tradursi nel breve termine «in un bel numero di cadaveri biotech sparsi sul ciglio della strada».

Neppure lo stesso George Church è sfuggito alla regola: Codon Devices, la società da lui cofondata nel 2004, è stata costretta a chiudere i battenti. Codon Devices era nata con l’ambizione di diventare la Intel dell’industria bioingegneristica, per costruire moduli sinto-biologici prefabbricati. che i ricercatori avrebbero poi utilizzato per “riprogettare”, per esempio, una cellula di lievito. L’impresa, lamenta oggi lo scienziato imprenditore, «bruciò completamente tutti i suoi finanziamenti».

Il codice di Madre Natura

Con la sua ultima iniziativa Church spera di evitare questo destino. L’azienda, chiamata Warp Drive Bio, mescola informatica, chimica e ingegneria genetica in un cocktail che non sarebbe stato possibile in un passato neppure troppo lontano. L’obiettivo consiste nell’applicare le tecniche della sequenziazione ultrarapida e della biologia sintetica, di alcune delle quali Church stesso è stato pioniere, per dare la caccia a nuovi farmaci, analizzando il DNA di milioni di campioni ambientali che le aziende farmaceutiche hanno raccolto e immagazzinato nel corso di diversi decenni.

A tutti gli effetti Warp Drive Bio sta setacciando questo materiale alla ricerca di parti genetiche già programmate dalla natura, in modo da poterne ricavare sostanze chimiche particolarmente efficaci e utili. La tecnologia messa a punto da Church servirà per generare copie di queste componenti, integrarle all’interno di batteri e ottimizzarne il funzionamento. A quel punto i batteri potranno venire utilizzati per produrre sostanze che, se tutto dovesse andare secondo i piani, vanteranno tutta una serie di promettenti virtù terapeutiche.

Warp Drive Bio, inaugurata nel gennaio scorso, ha un personale di una decina di ricercatori a tempo pieno e occupa un ufficio di meno di cento metri quadri a Cambridge, nel Massachusetts. Ma la startup, finanziata con 125 milioni di dollari, ha già una partnership strategica con la multinazionale farmaceutica francese Sanofi. Se riuscirà a centrare determinati obiettivi, Warp Drive Bio potrà venire ceduta a Sanofi per almeno un miliardo di dollari, in base a un accordo stipulato dopo che il primo fondatore della startup, il biochimico di Harvard Gregory Verdine, era stato invitato a Parigi nel maggio scorso per una presentazione di un paio d’ore, che suscitò grande interesse nel responsabile delle ricerche Sanofi, Elias Zerhouni, e nel suo staff.

Zerhouni, ex responsabile dei National Institutes of Health degli Stati Uniti, ha saputo cogliere immediatamente il potenziale innovativo del concetto messo a punto da Warp Drive: passare al setaccio le scorte di DNA naturale accumulate nel tempo: «Per noi la scarsa creatività cominciava a essere un problema ed era più che logico assicurare a quell’azienda le risorse di cui aveva bisogno».

L’intuizione di Verdine riguarda la particolare abilità della natura nel sintetizzare sostanze che agiscono in modo sicuro e preciso su determinati obiettivi biologici. Lo scienziato sostiene che la metà delle molecole farmaceutiche di piccole dimensioni sviluppate nell’arco degli ultimi 30/35 anni consiste in prodotti naturali o derivati. «Mi trovai a riflettere che con tutta probabilità qualcosa di utile nel corso dell’evoluzione ha facilitato la finalizzazione di quelle sostanze, rendendole più adatte a lavorare in sistemi cellulari complessi come l’organismo umano», dice Verdine. «La natura sembra aver già compiuto un lavoro ingegneristico in situazioni complesse che i chimici farmaceutici non capiscono ancora».

L’intervista con Verdine avviene in una delle salette multiuso, non più grandi di una toilette pubblica, adiacenti ai laboratori della Warp Drive Bio, in una vecchia legatoria ristutturata di Cambridge. Mentre Church e Collins sono focalizzati sulla creazione di nuove componenti sintetiche e tecniche bioingegneristiche, Verdine spera di utilizzare queste tecniche per gettare luce sui misteri che circondano i modi in cui la natura ottiene gli stessi risultati.

Nel corso degli anni i ricercatori in campo farmaceutico hanno raccolto e stoccato decine di migliaia, forse milioni di campioni ambientali: sostanze come il terriccio o la schiuma prodotta sulla superficie degli stagni, in cui si pensa di scoprire eventuali sostanze attive, depositandone un estratto su cellule tumorali o su vetrini con colture batteriche. Procedimenti come questi sono però troppo laboriosi e soggetti alla pura casualità. Quasi tutte le compagnie farmaceutiche hanno abbandonato queste sperimentazioni.

La soluzione escogitata da Verdine consiste nell’indagare nel DNA. Grazie ai costi in picchiata, le tecniche di sequenziazione rendono possibile decodificare tutto il materiale genetico presente in una goccia di acqua stagnante e brulicante di microorganismi. Secondo Verdine molte delle sostanze farmaceutiche naturali già identificate hanno “firme” geniche ̶ gruppi di geni spesso ricorrenti nei genomi dei batteri ̶ molto simili. Il trucco, aggiunge, è quello di scansionare il DNA dei campioni e individuare gruppi dall’aspetto familiare, potenzialmente capaci di sintetizzare composti di origine naturale, finora sfuggiti al vaglio dei ricercatori.

Una volta identificate, le sequenze di DNA dovranno venire ingegnerizzate all’interno di un batterio in modo da produrre la sostanza e studiarne le potenziali applicazioni in campo farmaceutico.

è qui che le tecniche di biologia sintetica sviluppate da Church saranno davvero cruciali: nel passaggio dal semplice codice genetico alle sostanze vere e proprie. «Ci serviamo della genomica e dell’informatica per individuare un gruppo di geni. Ma quella è solo una unità di informazione», sottolinea Verdine. «Dobbiamo ricavarne una molecola. La biologia sintetica ci consente di imbrigliare il codice dentro a vere e proprie fabbriche di biosintesi in grado di produrre le molecole. Senza di esse, il gruppo di geni risulterebbe del tutto inutile.»

L’idea di affidarsi alle scorte di componenti accumulate in natura, ribatte Church, «è suggestiva e promettente», considerando l’interesse che la biologia sintetica nutre nei confronti della produzione di nuovi “circuiti” di DNA e, in ultima analisi, della creazione ex novo di interi organismi. Oggi i ricercatori sono in grado di modificare, copiare e ricompattare il DNA in modo sempre più facile, ma faticano a raccapezzarsi quando si tratta di mettere insieme pezzi di DNA per farne qualcosa di utile. Il loro lavoro consiste ancora nell’editare il codice della natura e nel cercare di impararne “come si fa”. E, per il momento, il programmatore più bravo resta Madre Natura.

Related Posts
Total
0
Share