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    INTERVISTA AL MINISTRO MUSSI. I cervelli ci sono, mancano le risorse

    Intervista con Fabio Mussi, Ministro della Università e della Ricerca

    di Alessandro Ovi e Gian Piero Jacobelli

    L’esordio è di quelli che promettono di cambiare le carte in tavola: quando si parla di innovazione restiamo largamente afflitti dalla retorica dei luoghi comuni.

    Non a caso Fabio Mussi, dal maggio scorso Ministro dell’Università e della Ricerca, tende a basare sulla critica ai luoghi comuni la convinzione che sia necessario bonificare le idee per aprire la mente a ciò che di nuovo sta avvenendo nel mondo. Solo così si possono elaborare nuove metodologie di intervento nei confronti di situazioni, come quelle dell’innovazione in Italia, le cui cadenze, e scadenze, sono ormai dettate non da noi, ma da altri, in Occidente e in Oriente.

    Il problema per me è stato quello di fare una vera e propria full immersion nel sistema, perché una cosa è analizzare cifre e rapporti, un’altra è vedere le cose con i propri occhi, esaminarle direttamente, parlando con centinaia di operatori.

    Da una parte, i dati evidenti del nostro ritardo di risorse, flessibilità, integrazione, mobilità e internazionalizzazione. Dall’altra, persone di straordinaria qualità nei diversi campi in cui il nostro paese opera con successo, dalla fisica alle humanities, dalle scienze della vita alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione.

    L’Italia non è allo sbando, le sue potenzialità restano elevate è posseggono una intrinseca qualità, che deriva dalla tradizione e dai fattori di eccellenza che ancora caratterizzano la nostre strutture formative e di ricerca. Tuttavia, i problemi della quantità pesano, e non poco, su quelli della qualità.

    Invece dell’1.5 e del 1.2 per cento sul PIL, la media OCSE per Ricerca e Università il 2006 si chiuderà al disotto del 1.1 per cento per la ricerca e dello 0.88 per l’università. Il divario rispetto ai paesi che, più e meglio dell’Italia, stanno perseguendo attivamente gli obiettivi dettati dai protocolli di Lisbona, continua ad aumentare. Ancora di più aumenta nei confronti di alcuni paesi del Nord Europa, che hanno ulteriormente premuto l’acceleratore.

    In breve, per allinearci a questi obiettivi, ci vorrebbero 7 miliardi di euro aggiuntivi per la ricerca e 5 miliardi di euro per l’università. Ma non si tratta soltanto di risorse insufficienti. Il problema risiede anche in una incongrua composizione di queste risorse. Nel resto del mondo l’investimento dello Stato è di circa La metà o un terzo rispetto all’investimento delle strutture private, mentre in Italia il rapporto è addirittura invertito: il privato investe in ricerca la metà dello Stato.

    Ancora più preoccupante di quello con il PIL, appare il rapporto degli investimenti per R&S sul valore aggiunto, che costituisce l’indicatore più eloquente delle dinamiche produttive: 2.3% in Italia, 5.8% in Europa, 8.6% negli Stati Uniti, addirittura 9.6% in Giappone, tanto per dire che non ci troviamo dietro ai primi, ma che siamo in fondo al gruppo, per usare una metafora ciclistica.

    Si tende ad attribuire questa situazione alla struttura del sistema industriale italiano, composto soprattutto di piccole e medie imprese, ma ciò non è del tutto vero, perché anche Svezia e Finlandia presentano caratteristiche simili, eppure il loro tasso di innovazione è tra i più elevati



    Dunque investiamo troppo poco per riuscire e conseguire gli obiettivi che ci siamo proposti e, soprattutto, per consentire alle nostre potenzialità di esprimersi al meglio. Ma, per riprendere il riferimento al Giro d’Italia, non c’è il rischio, se non si riesce a tenere la ruota di chi ci precede, che si finisca per staccarsi del tutto? Insomma, bisogna produrre di più per investire di più, o viceversa?

    In effetti, quello della produttività è un circolo vizioso perché, da un lato, la produttività non può fare a meno di processi innovativi e, dall’altro lato, in Italia attualmente la componente tecnologica è scarsa e la crescita è fragile.

    Ciò che risulta sostanzialmente carente è la propensione all’innovazione e all’investimento e in questa carenza non sono soltanto le risorse finanziarie a pesare. Paradossalmente, nel paese dell’alta cultura, a mancare è proprio la propensione culturale. E, a volte, manca proprio la cultura considerata in sé e per sé, nei suoi più qualificanti parametri formativi: nell’ultimo rapporto di UnionCamere, dell’estate scorsa, il 34% dei nuovi assunti proveniva dalla scuola elementare, un altro 34% dalla scuola media, inferiore e superiore, e dalle scuole professionali, mentre soltanto l’8.5 per cento si era laureato e soltanto uno su dieci dei laureati aveva conseguito una laurea tecnica. Si tratta di riscontri senza dubbio molto preoccupanti, sui quali dobbiamo assolutamente accendere un faro per accrescere il livello di attenzione.

    Molti ribadiscono, e a ragione, l’esigenza di “fare sistema”: ma bisogna stare attenti alle formule magiche, che rischiano spesso di occultare più di quanto rendano manifesto. Una cosa è “fare sistema”, per tentare di annacquare le proprie responsabilità in quelle degli altri. Un’altra cosa è “fare sistema” nella prospettiva di una duplice assunzione di responsabilità. Quella specifica, che concerne ciascuno di noi nel quotidiano esercizio delle proprie funzioni, il pubblico e il privato, il grande e il piccolo, l’impresa e l’università, la politica nazionale e quella comunitaria. Quella più generale, di un progetto comune che implica la capacità dello Stato e del Governo di conferire a tanti interessi, a volte concomitanti e a volte concorrenti, una visione confluente, un obiettivo condiviso, un impegno collaborativo.

    Ho parlato di “luoghi comuni”, per ribadire la mia convinzione che ce la possiamo fare, ma che, oltre a cambiare radicalmente i comportamenti individuali e collettivi, dobbiamo anche cambiare i più diffusi modi di pensare. Il sociobiologo Edward O. Wilson ha parlato di un “collo di bottiglia”, attraverso il quale dovrà passare nei prossimi 20 30 anni l’umanità: aumento della popolazione mondiale (saremo presto 9 miliardi), invecchiamento demografico, concentrazione della popolazione in pochi paesi (in tredici avranno da soli il 50% della popolazione mondiale), urbanizzazione spinta (con megalopoli da 50 milioni di abitanti), progressivo esaurimento dei combustibili fossili per la produzione di energia,mutazioni irreversibili dell’atmosfera, cambiamenti climatici. Da queste previsioni scaturiscono enormi problematiche nei settori della mobilità, della comunicazione, della salute e via dicendo e l’esigenza di un salto tecnologico.



    Di fronte alla complessità di questi problemi si resta interdetti, perché, da un lato, è inevitabile che si debba operare tutti insieme, ma dall’altro lato ci troviamo a fare i conti con le nostre peculiarità, che ci svantaggiano almeno tanto quanto ci avvantaggiano. Cosa fare dal punto di vista strutturale e organizzativo per affrontare questa contraddizione, che ci concerne più da vicino, nella prospettiva della ricerca e della formazione?

    Dal punto di vista strutturale, due sono gli obiettivi programmatici: il primo è quello di difendere e sviluppare il sistema pubblico della ricerca; il secondo consiste nella valorizzazione della “curiosità”, cioè di quella ricerca che evita di perseguire sempre e necessariamente una diretta applicazione industriale, anche se l’applicazione ne costituisce il momento conclusivo della convalida e del successo.

    Dal punto di vista organizzativo, credo che sia necessario contenere l’eccessiva frammentazione della ricerca pubblica che, attualmente, presenta una struttura “a canne d’organo”, mentre vanno promosse tutte le possibili forme di connessione e di scambio di conoscenze tra i diversi settori, tra i quali in effetti si registra una sempre maggiore affinità strumentale e metodologica.

    Ho visitato recentemente il Centro bioinformatico di Trento, dove una trentina di ricercatori operano alacremente, grazie a un finanziamento misto, pubblico e privato, in particolare proveniente da Microsoft. Sono rimasto favorevolmente impressionato dal clima collaborativo che si percepiva in tutti i laboratori, nei quali il matematico lavora a stretto contatto con l’informatico e quest’ultimo con il biologo, secondo una organizzazione basata su criteri metodologici, ma evidentemente anche formativi e attitudinali.

    Per contro, mi pare anche necessario procedere a una maggiore specializzazione dei Centri di ricerca, che oggi fanno tutto e fanno troppo: specializzazione e interdisciplinarità costituiscono le due parole magiche, che potrebbero tuttavia riassumersi in una terza, riassuntiva: quella della semplificazione, o per dirla in maniera più incisiva, l’esigenza di scrostare dal sistema pubblico le indebite superfetazioni che negli anni ne hanno ridotto l’efficienza, ma soprattutto lo spirito innovativo, ancorandolo a logiche burocratiche e talvolta schiettamente di potere, che risultano moralmente non condivisibili, ma anche nocive sotto il profilo dei risultati potenziali.



    Se la ricerca pubblica va semplificata, cosa si dovrebbe fare per quella privata? E’ un problema di finanziamenti o di orientamenti? O piuttosto è un problema di motivazioni e di collegamenti con le altre componenti della ricerca nazionale, incluse quelle universitarie?

    Diciamo pure che allo stato attuale la ricerca privata nel nostro paese non è sufficiente e tuttavia non se ne può e non se ne deve fare a meno. E’ quindi necessario tendere la mano al privato con il duplice obiettivo di aumentarne sia la propensione alla ricerca in proprio sia quella alla committenza nei confronti dell’università e degli Enti pubblici di ricerca. Molto importante appare, da questo punto, di vista il fondo di 300 milioni di euro per il credito di imposta alle imprese che danno commesse agli Enti di ricerca.

    La leva finanziaria, quindi, resta decisiva, ma ne devono venire ripensate le modalità. La logica dell’intervento pubblico non si esaurisce nel principio: “niente riforme senza soldi”, ma deve integrarsi anche con il principio simmetrico: “niente soldi senza riforme”. Per dirla in maniera più folkloristica, il problema non è quello di affamare la mucca per costringerla a dare più latte: affamandola, infatti, la mucca muore. Da noi la dieta è cominciata già qualche anno fa, ma le cose non sono certo migliorate.

    Se mai è vero il contrario, che solo un livello adeguato di risorse consente di ottenere risultati migliori e queste risorse presentano dei valori di soglia. Dagli anni Ottanta a oggi, gli investimenti mondiali annui in ricerca si sono triplicati, da 300 a 900 miliardi di dollari. Ma, mentre in Cina tendono a raddoppiare ogni cinque anni e negli USA raddoppiano in dieci, in Italia si fanno passi indietro, tanto che, rispetto al 2000, alla ricerca è venuto a mancare un 20% degli stanziamenti, parallelamente a quelli per l’università, che sono diminuiti di circa un miliardo DI euro in termini reali.

    La penuria, invece di promuovere una razionalizzazione delle risorse, ha finito per incentivare l’arte di arrangiarsi, che può forse funzionare sul breve termine, ma contraddice ogni logica di programmazione. Su questo piano si dovrà fare molto, con la piena e convinta attuazione del piano per l’innovazione al 2015, 1200 milioni di euro in 3anni,in fase di completamento e di approvazione. E il progetto FIRST, che prevede 900 milioni di euro di investimenti nei tre anni.

    Ma si tenga sempre presente una equazione fondamentale: i progetti stanno alle risorse come le risorse stanno ai soggetti. Se non c’è nessuno in grado di metterle a frutto, le risorse rischiano di andare sprecate e di peggiorare la situazione, invece di provocare l’auspicabile decollo del sistema.

    Un aspetto che vorrei sottolineare in maniera specifica è quello delle infrastrutture della ricerca, che non riguardano soltanto il territorio, con le grandi vie della mobilità o della comunicazione, ma anche la ricerca e la conoscenza. Pensiamo alle biblioteche, ai laboratori, all’edilizia specializzata che tanti progressi ha fatto registrare oltre Atlantico e che qui da noi muove solo ora i primi passi. E pensiamo anche ai musei della scienza e alle strutture della divulgazione scientifica, che costituiscono l’unico strumento idoneo per recuperare un ritardo di diffusione e di sensibilizzazione popolare, non limitato al campo delle scienze naturali, ma paradossalmente esteso anche a quello delle scienze umane, in cui l’Italia non dovrebbe temere concorrenze.

    Il tema delle infrastrutture è un altro di quelli che ci devono legare all’Europa e al mondo, mediante strategie mirate per “mettere il nostro paese in rete”, per esempio sui grandi settori dell’energia, dalle energie rinnovabili al risparmio energetico, e delle scienze della vita, dove l’Italia gode di una indiscussa credibilità.



    Accennando alla dimensione europea della ricerca e alla possibilità di reperirvi sia finanziamenti sia orientamenti, non si può trascurare la necessità di mutare l’atteggiamento, se non ostile, quanto meno disinteressato che l’Italia ha mantenuto negli ultimi anni nei confronti dell’Europa della ricerca. Si può prevedere un cambiamento di rotta in questo senso?

    La dimensione europea resta e non può non restare quella di riferimento, per la ricerca e per molte altre delle funzioni e delle opportunità di crescita del nostro paese, anche se è vero che bisogna ridefinire e potenziare la nostra partecipazione.

    In effetti, nei primi mesi del nuovo governo l’immagine internazionale dell’Italia è migliorata sensibilmente e si tenga conto che la relazioni culturali e scientifiche costituiscono un aspetto sempre più rilevante ed efficace della politica estera. Ma a questo “Bentornata Italia” che ci viene rivolto dagli Organismi comunitari e mondiali, deve ora corrispondere un maggiore respiro programmatico e una più convinta disponibilità nei confronti di tutte le componenti della comunità internazionale, non solo di quelle vincolate alla logica dell’atlantismo. Inoltre, va posto in atto un tempestivo recupero della tensione sui grandi progetti europei, per contrastare l’innegabile raffreddamento nella costruzione degli spazi europei di formazione e di ricerca.

    Perché guardare sempre indietro, con sterili polemiche sulle radici, invece di guardare in avanti, a ciò che si deve costruire in tema di credibilità e di solidarietà, che sono il presupposto di ogni azione comune? Fondamentale a questo proposito è il Settimo Programma Quadro, dove significativamente l’Italia è uscita dalla minoranza di blocco che lo teneva in stallo.

    Altrettanto rilevante mi sembra il ruolo che l’Italia ha recuperato nell’European Research Council, dove nella passata legislatura non aveva neppure indicato i proprio rappresentanti, o nel Programma IDEAS, concernente la ricerca più innovativa e quindi meno finalizzata. Per quanto siano importanti, non si possono concentrare tutte le attenzioni e le risorse, come si è fatto, sulle piccole e medie imprese. Non è un caso che ora abbiamo salvato i finanziamenti europei grazie alla rimozione della freddezza su IDEAS.

    Il successo del progetto Galileo, che oggi rappresenta una vera e propria bandiera per l’Italia e per le sue strutture, pubbliche e private, di ricerca, potrebbe costituire un modello al tempo stesso di organizzazione e di consenso, per l’individuazione di nuovi criteri e di nuove modalità operative.

    Bisogna trovare, tutti insieme, un nuovo equilibrio tra la ricerca finalizzata e quella di base. Bisogna rilanciare le “grandi scommesse”, i Big Bets, come si dice negli Stati Uniti, che appaiono suscettibili di provocare autentici balzi in avanti, sia nel campo delle conoscenze scientifiche sia in quello delle loro applicazioni tecnologiche e produttive.

    Inoltre, accanto alla dimensione europea, l’Italia è chiamata a giocare un ruolo fondamentale nell’area mediterranea, includendovi anche una visione allargata del Medio Oriente. L’Italia resta, infatti, l’unico paese che può farlo, perché non ha mai rivestito posizioni dominanti, perché può vantare relazioni molteplici e positive, perché possiede una tradizione culturale riconosciuta ovunque.



    Ancora una volta, ai problemi della ricerca finiscono inevitabilmente per mescolarsi quelli della convivenza, per quanto concerne sia le scelte interne, quelle che ci riguardano direttamente, sia le scelte esterne, quelle che devono fare leva sulla partecipazione e sul consenso di più protagonisti. In altre parole, quello dell’etica della ricerca va considerato come un problema o come una soluzione?

    Lo sviluppo tecnologico, soprattutto nei settori delle alte energie e dei meccanismi della vita, comporta responsabilità che si usa definire “etiche” per chiare che la loro portata va oltre quella di carattere meramente specialistico: oltre il presente verso il futuro, oltre la comunità locale verso quella globale, oltre la professionalità verso una dignità che chiama in causa valori e tutele connesse non soltanto al sistema dell’innovazione, ma in genere a quello della progettazione della umanità nel suo complesso.

    Nessuno possiede oggi e forse nessuno potrà possedere domani la parola che dirime: è necessario un dialogo serrato, è necessario avere presenti tutte le opzioni possibili, è necessario valorizzare invece che demonizzare i progressi della scienza e della tecnologica, ai quali va riconosciuta la capacità di cambiare spesso le carte in tavola.

    Si pensi al successo delle cellule staminali, la cui importanza terapeutica nessuno può negare. Va indubbiamente ricercato un punto di equilibrio tra libertà della ricerca e rispetto della vita, ma ciò richiede grandi sforzi di comprensione tra culture e valori diversi. Per ora, a livello europeo, il Consiglio proibisce la distruzione di embrioni, ma permette l’utilizzazione di linee cellulari già esistenti, anche se resta da decidere come comportarsi con le migliaia di embrioni crioconservati, derivanti dalle pratiche di fecondazione assistita. Fortunatamente, la ricerca biologica sta per offrire soluzioni che permetteranno di procedere senza la necessità di affrontare in maniera radicale e probabilmente irrisolvibile il problema degli embrioni.

    L’etica è promozione del nuovo e non timore, non chiusura, non pregiudizio. In questa prospettiva i giovani, uomini e donne, devono diventare protagonisti di questo inedito sguardo in avanti e sui giovani è necessario puntare, invece di subirne l’intraprendenza e talvolta anche la trasgressività come una minaccia per i poteri costituiti. I giovani vanno posti in condizione di andare e venire nel mondo, per imparare e per insegnare, perché anche la bilancia commerciale dei cervelli, oltre a quella delle risorse, deve tendere al pareggio.

    Nonostante le difficoltà che il nostro paese sta attraversando, non si può, infatti, trascurare quello che potremmo definire un nostro preminente compito “umanitario”: l’Italia non deve crescere soltanto per migliorare le proprie condizioni di vita, sia pure nel senso qualitativo cui si è accennato, ma anche per continuare a fornire il suo contributo culturale alla soluzione dei grandi problemi dell’umanità.

    Da questo punto di vista, l’Italia ha una specifica responsabilità verso se stessa, ma anche verso l’Europa e il mondo: e non sembrino parole grosse, dal momento che a questa responsabilità veniamo più spesso richiamati dagli altri che da noi stessi.

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