Internet femminista sarebbe meglio per tutti

La situazione in rete è diventata insostenibile per le donne che sono sottoposte a continui episodi di odio e sessismo. C’è chi propone un cambiamento radicale.

di Charlotte Jee

È il 13 aprile 2025. Come la maggior parte dei diciassettenni, Maisie afferra il telefono non appena si sveglia. Controlla le sue app ogni mattina nello stesso ordine: Herd, Signal, TikTok.

Herd è nato come un social network di nicchia rivolto alle ragazze, ma oggigiorno ci partecipano anche i ragazzi. Maisie va alla sua pagina personale e guarda cosa ha appuntato lì: foto del suo cane, della sua famiglia, del suo progetto scolastico di scienze. È come un album digitale di tutte le cose che ama, in un unico posto. Legge i commenti dei suoi amici e guarda cosa hanno aggiunto alle loro pagine. Non va su Facebook (solo i nonni lo usano ancora) o Twitter. Nessuna metrica dei follower. Nessun estraneo urlante.

Poi controlla Signal, un’app diventata popolare sin dal grande esodo da WhatsApp del 2023, quando il sistema di messaggistica ha annunciato che avrebbe condiviso ancora più dati con Facebook e gli utenti sono fuggiti verso alternative più sicure e crittografate. Infine, si rivolge a TikTok. Guarda un video di alcune ragazze che ballano, scorre in alto, vede un gatto che salta attraverso un cerchio, scorre ancora più in alto e guarda un video esplicativo sui vulcani. TikTok non raccoglie i suoi dati né la sua posizione. Gran parte di questo tipo di operazioni sono ora illegali, grazie al Data Protection Act promosso dai legislatori negli Stati Uniti tre anni fa a causa delle pressioni di Big Tech. 

Maisie deve sbrigarsi. Ha bisogno di prepararsi per la scuola, ma prima controlla Instagram. Anche se di recente ha ricevuto uno strano messaggio da un ragazzo, ha usato la semplice procedura con un clic dell’app per segnalarlo e sa che non lo sentirà più. Instagram ha preso molto più seriamente le molestie negli ultimi due anni. Ci sono così tante alternative per trascorrere il tempo online: le persone non vogliono stare in un posto che non li mette a disagio. 

Questa visione di Internet libera da molestie, odio e misoginia potrebbe sembrare inverosimile, soprattutto se si è donna. Ma un piccolo e crescente gruppo di attivisti crede che sia giunto il momento di reimmaginare gli spazi online in modo da venire incontro alle esigenze del mondo femminile. Il loro obiettivo è costringere le aziende tecnologiche a disintossicare le loro piattaforme, una volta per tutte, e stanno creando spazi nuovi di zecca costruiti su principi a misura di donna fin dall’inizio. Questo è il sogno di che sta dietro a “Internet femminista”.

Il movimento potrebbe sembrare ingenuo in un mondo in cui molti hanno rinunciato all’idea della tecnologia come forza del bene. Ma alcuni aspetti dell’internet femminista stanno già prendendo forma. Il raggiungimento di questa visione richiederebbe una revisione radicale del modo in cui funziona il Web. Ma se lo costruiamo, non sarà solo un posto migliore per le donne, ma per tutti. 

Quantificare l’odio

In The Female Eunuch, uno dei testi cardine del femminismo, Germaine Greer scrisse nel 1970 che “le donne hanno ben poca idea di quanto gli uomini le possano odiare”. Grazie a Internet, come spiega Arzu Geybulla, ora lo sanno fin troppo bene. 

In qualità di giornalista azera che scrive per un giornale armeno, Geybulla è diventata un bersaglio per i troll online perché è stata percepita come una “traditrice” del suo paese di nascita (L’Azerbaigian e l’Armenia hanno una lunga storia di conflittualità, che è scoppiata in guerra aperta lo scorso anno). La sua prima minaccia di morte è arrivata nel 2014, dopo aver sopportato giorni di violenti abusi sessisti online. “Hanno detto che mi restavano tre giorni di vita. Mi hanno detto dove sarei stata sepolta”, ella dice. 

Sa anche che la violenza è stata estrema perché è una donna. “Il tema predominante è violare il mio corpo e punirmi: messaggi che dicono di stuprarla in gruppo, deportarla, spararle, zittirla, tenere la bocca chiusa, impiccarla”. (Si vedano immagini, a lato)

Le donne sono sempre state particolarmente soggette ad abusi online. Vengono attaccate non solo a causa di quello che dicono o fanno, ma per la loro appartenenza di genere. Se sono persone di colore o LGBTQ +, o hanno un lavoro pubblico come politico o giornalista, la situazione peggiora. Il messaggio sessista è sempre lo stesso: “Smettila di parlare, altrimenti…”. 

La pandemia ha esacerbato il problema in quanto lavoro, gioco, salute, appuntamenti e molto altro ancora sono stati trascinati in ambienti esclusivamente virtuali. La metà delle donne e delle persone con identità di genere non binarie intervistate dall’organizzazione benefica britannica Glitch ha riferito di aver subito abusi online lo scorso anno, la stragrande maggioranza su Twitter. Un recente rapporto del Pew Research Center ha rilevato che il 33 per cento delle donne sotto i 35 anni ha subito molestie sessuali online; nel 2017, questa cifra era del 21 per cento. 

A volte, l’abuso fa parte di una campagna coordinata. È qui che entra in gioco la “manosfera”. Il termine informale si riferisce a una vasta raccolta di siti Web e gruppi online dedicati ad attaccare le femministe e le donne più in generale. Uomini arrabbiati si riuniscono su forum come Reddit e 4Chan e siti web come A Voice for Men. Di tanto in tanto, identificano e concordano obiettivi per attacchi indiscriminati. Durante la controversia nota come Gamergate, nel 2014, diverse donne nel settore dei videogiochi hanno affrontato una campagna di doxing coordinata (in cui gli aggressori hanno trovato e pubblicato i loro dettagli personali come numeri di telefono e indirizzi) e una raffica di stupri e minacce di morte. 

La manosfera non è una minaccia astratta e virtuale: può avere conseguenze nel mondo reale. È qui che Faisal Hussain ha trascorso ore a radicalizzarsi prima di uccidere una donna e una ragazza e ferire altre 14 persone a Toronto nel 2018. Sul suo computer, la polizia ha trovato una copia di un manifesto di Elliot Rodger, un altro uomo profondamente radicato nella manosfera protagonista della furia omicida a Isla Vista, in California, nel 2014. Il manifesto di Rodger diceva che si stava vendicando delle donne per averlo rifiutato e attaccando uomini sessualmente attivi per invidia.

Essere una donna online significa essere altamente visibile e un obiettivo diretto di quell’odio, afferma Maria Farrell, esperta di politiche tecnologiche ed ex direttrice dell’Open Rights Group. “La mia prima minaccia di stupro e morte è avvenuta nel 2005”, ricorda. Farrell ha scritto un post sul blog criticando la risposta degli Stati Uniti all’uragano Katrina come razzista ed è stata successivamente inondata di minacce. Da allora, continua, la situazione è peggiorata: “Una decina di anni fa, dovevi dire qualcosa per attirare gli attacchi. Ora è una persecuzione quotidiana. 

Tuttavia, le minacce di morte e gli abusi online non sono gli unici problemi online che colpiscono in modo sproporzionato le donne. Ci sono anche danni meno tangibili, come la discriminazione algoritmica. Per esempio, se si prova a cercare su Google i termini “studente” e “studentessa”, i risultati delle immagini per i ragazzi sono per lo più neutri, mentre quelli delle ragazze sono dominati da immagini sessualizzate. 

Google classifica questi risultati sulla base di fattori come la pagina web su cui appare un’immagine e le didascalie, in base agli algoritmi di riconoscimento delle immagini. I pregiudizi si insinuano attraverso due percorsi: gli algoritmi di riconoscimento delle immagini stessi sono addestrati su immagini e didascalie sessiste da Internet, e le pagine web e le didascalie che parlano di donne sono distorte dal sessismo pervasivo che si è costruito nel corso di decenni online. In sostanza, la rete è una macchina misogina che si autoalimenta.

Per anni, Facebook ha addestrato i suoi sistemi di apprendimento automatico per individuare e cancellare qualsiasi immagine che sia legata al sesso o alla nudità, ma questi algoritmi sono stati ripetutamente segnalati come troppo zelanti, censurando le foto di donne a taglie forti o donne che allattano i loro bambini. Il fatto che l’azienda abbia fatto ciò consentendo allo stesso tempo che l’incitamento all’odio dilagasse sulla sua piattaforma non è sfuggito agli attivisti. “Questo è ciò che accade quando si lascia che ‘i ragazzi’ della Silicon Valley stabiliscano le regole”, afferma Carolina Are, ricercatrice sui pregiudizi algoritmici alla City University di Londra.

Come siamo arrivati a questo punto

Ogni donna con cui ho parlato per questo articolo ha detto di aver subito più molestie negli ultimi anni. Un probabile colpevole è il design delle piattaforme di social media e in particolare le loro basi algoritmiche. Agli albori del web, le aziende tecnologiche hanno scelto di supportare i loro servizi con la pubblicità. Semplicemente non ci è stata data la possibilità di iscriversi a Google, Facebook o Twitter. Invece, la valuta che queste aziende bramano sono bulbi oculari, clic e commenti, che generano dati che possono impacchettare e utilizzare per acquisire valore dai propri utenti vendendoli ai clienti reali: gli inserzionisti. 

“Le piattaforme cercano di massimizzare il coinvolgimento, tramite algoritmi che generano più clic”, afferma Farrell. Praticamente ogni piattaforma tecnologica tradizionale premia il coinvolgimento sopra ogni altra cosa. Ciò privilegia i contenuti incendiari. Charlotte Webb, che ha co-fondato il collettivo di attivisti Feminist Internet nel 2017, lo afferma senza mezzi termini: “L’odio fa soldi”. Facebook ha realizzato profitti per 29 miliardi di dollari nel 2020.

L’ignoranza e la miopia alla base del tecno-ottimismo negli anni 1990 erano parte del problema, afferma Mar Hicks, storico della tecnologia dell’Illinois Institute of Technology.  In effetti, molti dei primi pionieri di Internet credevano che potesse diventare un mondo virtuale neutrale, libero dal disordine e dalle complicazioni di quello fisico. 

Nel 1996, John Perry Barlow, cofondatore della Electronic Frontier Foundation, ha scritto il testo sacro del movimento, A Declaration of the Independence of Cyberspace, in cui si diceva: “Stiamo creando un mondo in cui tutti possono entrare senza privilegi o pregiudizi accordati dalla razza, dal potere economico, dalla forza militare o dalla condizione di nascita”. Il genere non è menzionato in nessuna parte nella dichiarazione.

“L’idea iniziale di Internet era che avrebbe rivoluzionato i rapporti di potere e portato a una maggiore democrazia”, sostiene Hicks. “È sempre stata una visione limitata e astorica. Non era nemmeno quello che stava succedendo in quel momento”. In realtà, proprio quando la dichiarazione di Barlow è stata pubblicata, le donne stavano fuggendo dai lavori tecnologici. Le donne erano state al centro dello sviluppo iniziale dell’industria tecnologica, ma sono state gradualmente eliminate nel tempo proprio mentre la retribuzione e il prestigio aumentavano, come ha spiegato Emily Chang, presentatrice e produttrice esecutiva di Bloomberg Technology, nel suo libro del 2018 Brotopia

Il punto più alto è stato il 1984, quando circa il 35 per cento della forza lavoro tecnologica degli Stati Uniti era di sesso femminile. Ora è inferiore al 20 per cento e questo numero non si è mosso da un decennio. Se si guarda ai vertici della gestione delle società tecnologiche – i consigli di amministrazione e gli amministratori – le donne sono ancora più rare. Questo è un problema, perché significa che le voci delle donne sono state – e in molti casi lo sono ancora – in gran parte trascurate nella progettazione e nello sviluppo della maggior parte dei servizi online. Piuttosto che ribaltare lo squilibrio di potere tra uomini e donne, per molti versi il boom tecnologico li ha cementati più profondamente. 

Reinventare Internet

Allora come sarebbe una rete “internet femminista”? 

Non esiste una visione unica o una definizione concordata. Ciò che ci si avvicina di più sono i 17 principi pubblicati nel 2016 dall’Association for Progressive Communications (APC), una sorta di Nazioni Unite per i gruppi di attivisti online. I 57 membri dell’organizzazione fanno campagne su tutto, dal cambiamento climatico ai diritti sul lavoro all’uguaglianza di genere. I principi sono stati il risultato di tre giorni di colloqui aperti e non strutturati tra quasi 100 femministe nel 2014, oltre a workshop aggiuntivi con attiviste, specialisti dei diritti digitali e accademiche femministe. 

Molti dei principi si riferiscono alla correzione del vasto squilibrio di potere tra le aziende tecnologiche e i cittadini. Il femminismo ha ovviamente a che fare con l’uguaglianza tra uomini e donne, ma in sostanza si tratta di potere: chi lo gestisce e chi viene sfruttato. Costruire una rete Internet femminista, quindi, significa in parte ridistribuire il potere dalla Big Tech alle persone, specialmente delle donne, che storicamente hanno avuto meno voce in capitolo. 

I principi affermano che una rete Internet femminista sarebbe meno gerarchico. Più cooperativo. Più democratica. Più consensuale. Più personalizzabile e adatta alle esigenze individuali, piuttosto che imporre un modello unico per tutti. Per esempio, l’economia online sarebbe meno dipendente dalla raccolta dei nostri dati e dal loro utilizzo per vendere pubblicità. Farebbe di più per affrontare l’odio e le molestie online, preservando la libertà di espressione. Proteggerebbe la privacy delle persone e il diritto all’anonimato. Questi sono tutti problemi che riguardano ogni utente di Internet, ma le conseguenze negative sono oggi maggiori per le donne. 

Per essere all’altezza di questi principi, le aziende dovrebbero dare maggiore controllo e potere decisionale agli utenti. Ciò significherebbe non solo che le persone sarebbero in grado di regolare , per esempio, le impostazioni di sicurezza e privacy (con la massima privacy come impostazione predefinita), ma che potremmo agire collettivamente, proponendo e votando nuove funzionalità. 

Le molestie diffuse non sarebbero viste come un prezzo tollerabile che le donne devono pagare, ma come un segno inaccettabile di fallimento. Le persone sarebbero più consapevoli dei propri diritti sui dati come individui e più disposte a intraprendere azioni collettive contro le aziende tecnologiche che hanno abusato di tali diritti. Sarebbero in grado di trasferire facilmente i propri dati da un’azienda a un’altra o revocare l’accesso ad essi del tutto. 

“La nostra premessa di base è che amiamo Internet, ma vogliamo mettere in discussione i profitti, gli obiettivi e le persone che gestiscono gli spazi che tutti usiamo”, afferma Erika Smith, che è membro del programma APC per i diritti delle donne dal 1994. Un punto di partenza è imparare a vedere Internet attraverso una lente femminista, guardando ogni servizio e prodotto e chiedendosi: come potrebbe essere usato per danneggiare le donne? 

Le aziende tecnologiche potrebbero incorporare questo tipo di valutazione dell’impatto di genere nel processo decisionale prima del lancio di qualsiasi nuovo prodotto. Gli ingegneri dovrebbero chiedere in che modo il prodotto potrebbe essere sfruttato da persone che cercano di danneggiare le donne. Le valutazioni dell’impatto di genere da sole non risolverebbero i molti problemi che le donne affrontano online, ma costringerebbero i team a riflettere sull’impatto sociale di ciò che stanno costruendo.

Ancora una volta, queste valutazioni non gioverebbero solo alle donne.  Un esempio perfetto viene dalla società di monitoraggio del fitness Strava. Nel 2018, l’azienda si è resa conto che il suo servizio poteva essere utilizzato per identificare singoli militari o personale di intelligence: esperti di sicurezza avevano collegato i punti dalle coordinate di corsa degli utenti alle basi statunitensi conosciute all’estero. Ma se Strava avesse ascoltato le donne, si sarebbe resa conto di questo rischio, dice Farrell.  “Le femministe le avevano avvertite che il sistema poteva essere usato per seguire le singole donne osservando i loro percorsi di corsa”, spiega. 

Le possibili soluzioni

Gli attivisti attenti al mondo femminile stanno costruendo prodotti, conducendo campagne e organizzando eventi per affrontare praticamente ogni aspetto del sessismo online. Se si riuscirà a creare una rete Internet femminista, sarà grazie almeno in parte alla pura forza di volontà tra le persone coinvolte in questo movimento.

Si prenda l’esempio di Tracy Chou. 

È cresciuta nella Silicon Valley, è andata alla Stanford University per studiare informatica e poi ha lavorato come ingegnere del software presso Quora, Pinterest e Facebook. Come molte giovani donne, ha trascorso gran parte del suo tempo sui social media. Ma alla fine, si è stancata di essere costantemente interrotta da commenti misogini e razzisti, specialmente dopo aver iniziato a sostenere l’esigenza di una maggiore diversità nella Silicon Valley. 

Di tanto in tanto le molestie si sono trasformate anche in minacce fisiche. Un uomo che l’aveva perseguitata online è volato a San Francisco due volte e si è presentato dove si trovava, spingendola ad affidarsi a una società di sicurezza privata. La polizia le aveva detto: “Ci dica quando succede qualcosa”. 

Chou ha usato le sue capacità ingegneristiche per creare uno strumento chiamato Block Party, che aiuta le persone a filtrare gli abusi su Twitter. Tutte le risposte e le menzioni che l’utente non vuole vedere vengono messe in una “cartella di blocco. I suoi primi utenti sono stati prevalentemente donne che affrontano violenti abusi online, dice Chou: giornaliste, attiviste e scienziate che lavorano sul covid-19. Ma soprattutto, l’ha fatto per se stessa: “Lo faccio perché devo affrontare le molestie online e non mi piace. Sta risolvendo il mio problema”.

Da quando Chou ha iniziato a creare Block Party, alla fine del 2018, Twitter ha adottato una o due delle sue funzionalità. Per esempio, ora consente alle persone di limitare chi può rispondere ai loro tweet. Alcuni attivisti non si accontentano di affrontare gli abusi in questa fase avanzata del processo. Vogliono mettere in discussione le ragioni di fondo che portano a tali molestie in primo luogo.

Si prenda il caso degli assistenti vocali e degli altoparlanti intelligenti. Oltre un terzo degli americani li utilizza abitualmente.  In quasi tutti i casi, si interagisce con una voce femminile. E questo è un problema, perché perpetua uno stereotipo di femminilità passiva, gradevole, desiderosa di compiacere che si rifà alla casalinga degli anni 1950, afferma Yolande Strengers, ricercatrice e sociologa digitale alla Monash University. “Puoi essere offensivo con loro e loro non possono reagire”, spiega. 

Un rapporto delle Nazioni Unite del 2019 ha concluso che gli altoparlanti intelligenti rafforzano gli stereotipi di genere dannosi. Ha chiesto alle aziende di smettere di impostare in modo predefinito gli assistenti digitali al femminile e di esplorare modi per farli sembrare “senza genere”. Un progetto, chiamato Q, si proponeva di fare proprio questo. E, ad ascoltarlo, si capisce che è stato svolto un lavoro abbastanza convincente. 

Q è stato creato da Virtue, un’agenzia fondata dalla società di media Vice. Il team ha consultato i linguisti per definire i parametri di una voce “maschile” e “femminile” e capire dove si sovrappongono. Poi hanno registrato molte voci, le hanno modificate e testate su migliaia di persone per identificare le più neutre rispetto al genere. Se Apple o Amazon lo volessero, potrebbero adottarlo domani.

Q non è l’unico progetto che cerca di affrontare i problemi alla radice. Caroline Sinders, una ricercatrice e artista di machine learning, ha creato un kit di strumenti aperto e gratuito che aiuta le persone a interrogare ogni fase del processo di intelligenza artificiale e ad analizzare se è femminista o intersezionale (tenendo conto di questioni sovrapposte come il razzismo strutturale, il sessismo, l’omofobia e classismo) e se ha qualche pregiudizio strisciante. 

Superrr Lab, a Berlino, è un collettivo tecnologico femminista che lavora, tra le altre cose, sull’esplorazione di idee utopiche su come garantire che i futuri prodotti digitali riflettano meglio le esigenze delle donne e dei gruppi emarginati. Ma alcuni attivisti non si accontentano solo di migliorare le piattaforme esistenti. 

Mady Dewey e Ali Howard, che lavorano entrambi per Google, hanno in programma di lanciare il loro social network, Herd, ad aprile. Vogliono creare un’esperienza online non deleteria per donne e ragazze. Hanno revisionato le funzionalità di progettazione principali che tutti diamo per scontate nei social media, in particolare “Mi piace” e commenti, che premiano il coinvolgimento e aiutano a incoraggiare gli abusi. 

Le persone arrivano direttamente sul proprio profilo, una sorta di “giardino digitale” dove possono archiviare foto, pensieri e cose che le rendono felici. Non ci sono “Mi piace”. Esistono limiti su quante volte le persone possono commentare, per evitare campagne di trolling. L’obiettivo è coltivare un ambiente più amichevole e rilassato. I cofondatori affermano che stanno essenzialmente costruendo Herd per gli adolescenti che si affacciano su Instagram.  

Ma cosa impedisce a questi progetti di affermarsi nel mainstream?

Una mancanza di contanti. Le donne non hanno mai ricevuto più del 3 per cento del capitale di rischio degli Stati Uniti, secondo Pitchbook. Non è certo una coincidenza che il venture capital sia ancora principalmente un club al maschile: solo il 14 per cento dei responsabili delle decisioni nelle aziende di VC sono donne, secondo una ricerca di Axios. “Posso solo immaginare cosa potrei fare anche solo con lo 0,7 per cento dei 27 miliardi di dollari a cui è stata venduta Slack”, afferma Suw Charman-Anderson, sostenitrice della diversità tecnologica che nel 2009 ha ideato l’ Ada Lovelace Day, una celebrazione della matematica britannica. 

Pensare in grande

Ma un rigagnolo di singoli progetti richiederà anni per fornire risultati, se mai potrà farlo. Alcuni attivisti pensano che il problema debba essere affrontato partendo dall’alto. Molti sperano che le azioni imminenti dei politici statunitensi per regolamentare le Big Tech andranno a beneficio soprattutto delle donne. L’esperto di politiche in materia di intelligenza artificiale Mutale Nkonde indica come esempi l’Algorithmic Accountability Act e la No Biometric Barriers Act. 

Entrambe queste leggi costringerebbero le aziende a controllare i pregiudizi dei loro algoritmi, inclusa la discriminazione di genere, e vieterebbero l’uso del riconoscimento facciale negli alloggi pubblici. Nessuna delle due leggi è passata nell’ultima sessione del Congresso controllata dai repubblicani, ma la presidenza di Biden la sosterrà fino in fondo. L’amministrazione Biden ha segnalato che intende affrontare le molestie online con un focus specifico sugli abusi sessisti, sebbene i dettagli concreti non siano ancora stati comunicati.

Gli attivisti vogliono che i legislatori si concentrino su questioni come la supervisione algoritmica e la responsabilità e spingano le piattaforme ad allontanarsi dal tipo di crescita rapida, dannosa e finalizzata al solo coinvolgimento degli utenti. I requisiti legali di moderazione dei contenuti potrebbero aiutare, così come una maggiore cooperazione tra le aziende tecnologiche sull’abuso online. 

Dopotutto, le molestie sono un problema che coinvolge le diverse piattaforme. Una volta che i troll hanno identificato un obiettivo, setacciano la vita online di quella persona, esaminando ogni singolo profilo di social media, indirizzo e-mail e post online prima di scatenare l’inferno. Le barriere alle donne che cercano di combattere contro gli abusi sono enormi. Il processo di segnalazione differisce da Twitter a Facebook a TikTok, complicando un’attività già dispendiosa in termini di tempo. 

Una soluzione parziale potrebbe essere quella di costruire un unico processo standardizzato per la segnalazione di abusi che tutte le grandi piattaforme tecnologiche accettino di utilizzare. La World Wide Web Foundation ha organizzato seminari su come affrontare la violenza online di genere negli ultimi mesi e il fatto che, al momento, non ci sia modo di affrontare le molestie su più piattaforme insieme è emerso come uno dei maggiori ostacoli che le donne devono affrontare, afferma Azmina Dhrodia, responsabile delle politiche di genere presso la fondazione.

La fondazione ha anche avuto uno scambio di idee con Facebook, Twitter, Google, YouTube e TikTok su questo tema e afferma che le aziende dovrebbero prendere “impegni importanti” al Generation Equality Forum, un raduno sponsorizzato dalle Nazioni Unite per l’uguaglianza di genere che si terrà a Parigi alla fine di giugno. 

In definitiva, le donne hanno il diritto di essere online senza timore di molestie. L’essere cacciate dalle piattaforme, diventa una questione di diritti civili. Ma è anche nel nostro interesse proteggerci a vicenda. Un mondo in cui tutti possono beneficiare allo stesso modo del web porterà a un migliore mix di voci e opinioni, a un aumento delle informazioni a cui possiamo accedere e a condividere un’esperienza online più significativa per tutti. 

Forse siamo a un punto di svolta. “Sono ottimista sul fatto che possiamo cambiare le politiche aziendali nei confronti del pubblico e dei consumatori”, afferma Hicks. “Abbiamo visto l’industria automobilistica e come Ralph Nader ha ottenuto che fossero introdotte le cinture di sicurezza. Siamo allo stesso punto con la Silicon Valley”.

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