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    Ingegneria genetica: sì, però…

    Alberto Abruzzese, docente di Sociologia della Comunicazione e Sociologia dei Processi Culturali, saggista e membro del Comitato scientifico di MIT Technology Review Italia, interviene nel dibattito sul cosiddetto “bambino geneticamente modificato”.

    di Alberto Abruzzese

    Mi azzardo a intervenire su qualche aspetto del problema dell’ingegneria genetica, anche se non si tratta della mia materia.

    In passato mi è accaduto di prendere una posizione su un problema che penso per certi aspetti analogo, quello dell’aborto, sostenendo che le politiche a sostegno del diritto ad abortire, pur da me condivise, peccano (in particolare nell’ambito delle culture progressiste e di sinistra) di una notevole dose di infondata leggerezza e irresponsabilità. Nei modi in cui vengono solitamente espresse e ideologizzate, non mettono in evidenza il fatto di comportare il diritto a uccidere un essere vivente in base a criteri e scelte dettate dalla necessità. Dunque un gesto che si inserisce nella natura stessa dei regimi di pace e di guerra della società civile. Diverso, ma solo in parte, il caso dell’eutanasia e, a mio avviso, anche del suicidio, la cui penalizzazione infierisce sulla libera scelta della persona su se stessa invece che essere dettata dallo stesso istinto alla sopravvivenza o meglio obbligo alla sopravvivenza incarnato nelle istituzioni sociali di ogni sistema di potere.

    Ho ritenuto di richiamare queste mie posizioni per chiarire il mio punto di vista sulle questioni, altrettanto se non più radicali, sollevate da MIT Technology Review Italia intorno alla legittimità o meno di “liberare” ogni potenzialità tecnologica della genetica. Per dire la mia, parto da alcuni passaggi del discorso di Gian Piero Jacobelli.

    1) «Non si può non rilevare una intrinseca contraddizione tra la scienza, che si sforza di cogliere la crescente complessità del mondo e della vita, e la tecnologia che invece opera, con sempre maggiore efficacia, per ridurre questa complessità, nella misura in cui il perseguimento dei suoi obiettivi operativi consiste proprio nel precostituire delle cause che provochino effetti predeterminati».

    2) «Anche la ingegneria genetica persegue risultati del tipo che Andreoli definisce “riduzionistici”, nel senso di ridurre, per quanto possibile, l’aleatorietà degli interventi programmati. Certo, quando questi interventi si proponessero di rimuovere i danni che anomale configurazioni del patrimonio genetico individuale potrebbero provocare, non si potrebbe non essere d’accordo. Ma meno d’accordo si sarebbe se l’intervento, invece di rimuovere un danno, consistesse nel precostituire una forma più gradita di altre possibili, riducendo appunto la variazione implicita in ogni configurazione genetica».

    3) «In definitiva, sarebbero da evitare tanto il riduzionismo “oscurantista”, quello che vorrebbe irreggimentare la ricerca in moralistiche e fatalmente anacronistiche preclusioni, quanto il riduzionismo “illuminista”, che al contrario procede per la sua strada non solo per conoscere come la natura si evolva, ma anche per porre un freno o comunque, più o meno consapevolmente, condizionare questa evoluzione».

    4) «Da questa considerazione mi pare che emerga un diverso modo di prospettare le relazioni tra le tradizionali “due culture”. Non si tratta più, infatti, di contrapporre, anche se per trovare più o meno artificiose forme di conciliazione, scienza e tecnologia da una parte e humanities, le discipline umanistiche, dall’altra, ma, se mai, di mettere in luce le contrapposizioni fenomenologiche tra la scienza, orientata al sapere, e la tecnologia, orientata al fare, per comprendere come questa intrinseca contrapposizione possa venire mediata proprio dal pensiero dell’uomo, che è pensiero eminentemente progettuale, vale a dire inteso a mantenere aperto l’orizzonte del progetto in quanto “progetto del progetto”».

    5) «Quando le istanze epistemologiche e le istanze etiche sapranno confluire, sarà forse anche possibile comprendere come, se il sapere è “sapere del cambiamento”, anche il fare debba venire inteso come un “fare perché si possa continuare a fare”: proiettato non verso un “dover essere”, ma verso un “poter essere”».

    Ho riportato così dettagliatamente la sequenza di questo ragionamento per cercare di risultare altrettanto chiaro nell’esporre il mio nel modo più succinto possibile.

    A me pare che la posizione espressa da Jacobelli sia ampiamente condivisibile nella sua intenzione di trovare una terza via rispetto alla opposizione tra riduzionismo oscurantista e riduzionismo illuminista. Non mi convince invece che la distinzione tra scienza (orientata al sapere) e tecnologia (orientata al fare) – già in sé distinzione problematica: non sono forse due dimensioni del “fare” e non sono forse ambedue sottoposte a scelte tra loro in conflitto?) – possa essere superata dall’arbitraggio delle scienze umane.

    Scienze umane o umanesimo? C’è in atto un pensiero dell’essere umano che non sia umanista? È vero – aggiungerei tragicamente vero – che l’umanesimo è scienza e insieme pratica dell’essere umano in quanto “progetto di sé” (“progetto”: parola che non potrebbe essere più “moderna” e più conveniente al soggetto sociale e ai suoi regimi di sviluppo, alla loro violenza), ma allora non si tratta di una volontà alternativa alla potenza della tecnica bensì il suo reale contenuto, il desiderio che la muove da sempre.

    Perché dunque le scienze umane possano riuscire a garantire l’aleatorietà del mondo umano – a evitare una sua “perfetta” estinzione – bisogna allora muoversi all’esterno di ogni accezione umanistica del pensiero, scientifico o politico che sia.

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