Infrastrutture e cambiamento climatico

Oltre a minacciare l’ambiente e la salute, i cambiamenti climatici hanno un costo economico molto alto.

di Lisa Ovi

Far fronte ai rischi climatici ormai inevitabili significa proteggere le coste, riprogettare impianti di gestione dei rifiuti e sistemi idrici, rafforzare le infrastrutture per i trasporti e potenzialmente rivedere la collocazione di centri abitati a rischio di inondazione e incendi che potrebbero rivelarsi troppo costosi da salvare.

Secondo quanto riportato nel quarto National Climate Assessment statunitense, i costi dell’adattamento climatico negli USA potrebbero raggiungere le decine o centinaia di miliardi di dollari l’anno entro la metà del secolo. Il calcolo dei costi climatici per l’Europa è in mano al progetto COACCH (CO-designing the Assessment of Climate CHange cost). Coordinato dalla Fondazione Centro Euro-Mediterraneo Sui Cambiamenti Climatici (CMCC), il progetto vede la partecipazione di 14 organizzazioni europee ed è finanziato dal programma di ricerca e innovazione Horizon 2020 dell’Unione Europea. Della durata di 42 mesi ed avviato nel dicembre 2017, il progetto giungerà a conclusione nel giugno di quest’anno, ma ha già fornito stime parziali sia dell’impatto economico dei cambiamenti climatici, che del costo dell’adattamento ad essi per svariati settori.

Uno studio del 2016 della Commissione Globale su Economia e Clima, prevedeva una spesa di circa 90 trilioni di dollari entro il 2030 per l’adeguamento delle infrastrutture dei paesi sviluppati e la costruzione di nuove infrastrutture nelle economie emergenti. Lo scorso dicembre, però, ricercatori del Carnegie Institution for Science e della University of Waterloo hanno delineato un quadro più ottimista per i paesi in via di sviluppo.

Lei Duan, Ken Caldeira e Juan Moreno-Cruz, hanno descritto su Environmental Research Letters le conseguenze climatiche della decarbonizzazione dei soli paesi ricchi, a fronte di ritardi nei tagli delle emissioni da parte dei paesi in via di sviluppo.

I risultati ottenuti dai ricercatori rivelano che l’onere della decarbonizzazione ricade soprattutto sui paesi ricchi. Più della metà della popolazione mondiale risiede in paesi con un prodotto interno lordo pro capite inferiore ai $10.000 all’anno. Queste nazioni producono attualmente meno del 7% delle emissioni globali di anidride carbonica e, secondo i risultati pubblicati nello studio, avviare processi di decarbonizzazione non prima del conseguimento di un PIL pro capite di $10.000 provocherebbe meno di 0,3° C di riscaldamento. Ciononostante, il tentativo di conseguire la stabilità economica con carbone, petrolio o gas rischia di rendere queste società dipendenti da infrastrutture alimentate da carburanti fossili per decenni a venire.

Lo smantellamento di infrastrutture permanenti alimentate da combustibili ha un costo elevato, e secondo uno studio pubblicato nel 2019, di cui Caldeira era coautore, conseguire gli obiettivi dell’accordo di Parigi, richiederebeb il ritiro anticipato delle centrali elettriche, caldaie, forni, veicoli e altre tecnologie a combustibili fossili già esistenti nel mondo.

Come spiega Caldeira: “Dobbiamo pensare a come aiutare le popolazioni a soddisfare i propri bisogni primari immediati, in un quadro di transizione ad un sistema energetico che non usi il cielo come discarica”. Le nazioni in via di sviluppo potrebbero contenere le emissioni senza compromettere il proprio sviluppo economico scegliendo un’attenta previsione e pianificazione delle infrastrutture in via di costruzione. La scelta di infrastrutture caratterizzate da basse emissioni preverrebbe anche il costo futuro del loro smantellamento.

(lo)

Related Posts
Total
0
Share