La tecnologia sta cambiando ruolo: da mezzo per operare sul mondo a nuovo mondo, la cui realtà virtuale e immersiva richiede inedite capacità di comprensione e di controllo, che le istituzioni preposte hanno ancora difficoltà a garantire.
Scriveva Marshall McLuhan, il maestro di tutti i mediologi, che la tecnologia serve essenzialmente a espandere e a potenziare le facoltà umane oltre i propri limiti fisiologici, allo scopo di modificare più incisivamente il mondo circostante. In altre parole, la tecnologia, quanto meno nella sua concezione tradizionale, che McLuhan identificava sia nell’era “meccanica” sia in quella “elettrica”, dovrebbe trovarsi “in mezzo”, tra noi e il mondo. Ma, con le nuove tecnologie elettroniche e digitali, si può dire che sia ancora così? Che la tecnologia si trovi davvero tra noi e il mondo e non piuttosto che “nel mezzo” si stia creando progressivamente un nuovo mondo, nei cui confronti, paradossalmente, sembrano mancarci le pure indispensabili mediazioni concettuali e operative?
Dopo un paio di anni in cui la pandemia da un lato e la crisi climatica dall’altro lato – entrambi, per altro, fenomeni critici che ancora ci sovrastano e non sembrano affatto abbandonare il campo – avevano tenuto banco sulla nostra Home Page, in cui si riflette in maniera accurata e tempestiva quanto avviene nelle diverse piattaforme scientifiche e tecnologiche, da qualche mese, e in particolare in queste settimane che preludono alle mai tanto auspicate vacanze, si può rilevare un deciso cambiamento di rotta.
Al mondo “reale” della tradizione, infatti, sembra subentrare in maniera piuttosto evidente l’altro mondo: il mondo che spesso si definisce “virtuale”. Un mondo che, sia chiaro, non si contrappone come il mondo del piacere rispetto al mondo del dolore, come il mondo della speranza rispetto al mondo della disperazione. Anche il mondo virtuale, e in particolare il cosiddetto “metaverso”, presenta le sue insidie e le sue frustrazioni. Si tratta di insidie e di frustrazioni connesse per lo più al cattivo uso o meglio all’uso improprio che si può fare di queste “tecnologie dell’altro mondo”. In primo luogo, proprio illudendosi che si tratti di un altro mondo, di un mondo in cui sia possibile lasciarsi alle spalle le difficoltà del mondo reale e avere accesso a un sistema di gratificazioni senza limiti. In secondo luogo, ignorando o rimuovendo i possibili abusi di questi suggestivi anche se spesso soltanto apparenti margini di libertà: trasformando appunto una libertà apparente in surrettizi vincoli e preclusioni, nei cui confronti mancano ancora le opportune difese.
Un titolo fra i tanti: Chi controlla i controllori di Internet?, in cui Abby Holheiser pone il problema degli algoritmi di controllo che, nell’ambito dei vecchi e nuovi siti di comunicazione sociale, in maniera più o meno consapevole da parte di chi li ha realizzati e di chi li gestisce, finiscono per rappresentare degli impliciti e quasi inevitabili supporti dei pregiudizi correnti e, quindi, delle disuguaglianze ideologiche che quei pregiudizi esprimono e alimentano. A questa realtà sfuggente e compromettente fa spesso riscontro una realtà che è sempre più difficile valutare e controllare: una realtà in cui si può essere alternativamente giovani e vecchi, uomini e donne, grassi o magri e via dicendo, come sottolinea efficacemente Tanya Basu in un altro articolo sulle “mosse vincenti antispam”.
Il problema non sta tanto nella possibilità che i governi più o meno democratici hanno di censurare le opinioni di quanti non la pensano come loro, dal momento che in questo caso gli strumenti di censura e repressione nella realtà reale sono anche più violenti e perentori di quelli nella realtà virtuale. Non abbiamo davanti soltanto violazioni della privacy o tentativi di truffa in contesti comunque privati, perché insidie e rischi di ciò che non è, ma potrebbe essere, riguardano anche i grandi problemi della globalizzazione, da quelli politici a quelli economici.
In una realtà di cui sarebbe difficile ottenere riscontri concreti e probanti, la realtà stessa può venire confezionata ad arte, per stigmatizzare i comportamenti dei presunti avversari o per orientare quelli dei presunti amici. Corruzione, pornografia, alterazione dei mercati sono soltanto alcune delle distorsioni che, a volo d’uccello, vengono denunciate sulla nostra Home Page, ma che per altro inducono non a qualche sorta di paranoia del virtuale, ma a una maggiore accortezza, alla convinzione che nella vita non basta perseguire i propri desideri e i propri interessi, ma bisogna farlo nella consapevolezza che questi desideri e questi interessi possono venire strumentalizzati da desideri e interessi più forti e problematici. Nella consapevolezza che ogni eccesso, per quanto sempre più facilmente disponibile e praticabile, può ritorcersi contro chi se ne lascia coinvolgere e irretire. Nella consapevolezza che quella dei desideri e degli interessi non è mai una dimensione personale, ma sempre una dimensione collettiva, per cui ogni desiderio e ogni interesse deve comunque tenere conto del contesto in cui si affermano e si confrontano desideri e interessi concomitanti.
Dice bene il giovane sociologo e politologo Gabriele Giacomini – il quale molto ha riflettuto sulla comunicazione e sul potere digitale nel suo nuovo libro The Arduous Road to Revolution. Resisting Authoritarian Regimes in the Digital Communication Age, di cui abbiamo pubblicato un estratto – che è necessario un Habeas Mentem, per fungere da indispensabile complemento del tradizionale Habeas Corpus, in cui si concretizzava la difesa di ogni cittadino nei confronti degli eventuali soprusi del potere vigente. Giacomini propugna un sistema di diritti umani capace di tutelare la libertà nel gestire gli elementi cognitivi veicolati dalle tecnologie.
Certo, ogni normativa può diventare ipertrofica e trasformarsi in uno strumento di coercizione ulteriore. Ma è anche vero che quanti più si partecipa, tanto più è difficile impedire a qualcuno di partecipare: vale a dire che il problema non è quello di limitare l’accesso alla Rete, ma quello di ampliarlo in modo tale che l’aperto confronto fra tanti soggetti concorrenti possa fungere da antidoto nei confronti di qualsiasi tentativo, più o meno subdolo, di violare il diritto a farsi riconoscere per ciò che veramente si è.
(gv)