Imparare a imparare

Il progresso tecnologico, soprattutto nelle realizzazioni più avanzate della Intelligenza Artificiale, rende indispensabile che ciascuno di noi continui ad apprendere anche oltre l’età scolastica, “imparando a imparare”.

di Angelo Gallippi

È noto che Marco Porcio Catone iniziò lo studio del greco intorno all’età di ottanta anni, costituendo il primo caso (noto) di quella che il Rapporto Faure dell’Unesco nel 1972 avrebbe definito “educazione permanente”, ossia istruzione che accompagna l’individuo lungo tutto l’arco della vita, da prima della scuola a dopo la pensione.

Ma mentre la motivazione del Censore fu eminentemente culturale, oggi noi dobbiamo tenerci aggiornati e comprendere le implicazioni dei rapidi progressi della tecnologia per una diversa ragione: evitare il rischio che i prodotti della Intelligenza Artificiale diventino i nostri padroni anziché i nostri schiavi, come fecero i primi robot della letteratura, inventati nel 1921 dal drammaturgo ceco Karel Capek, che distrussero l’umanità. Possibilità che in seguito ha ispirato una quantità di romanzi e film di fantascienza del genere distopico.

È questo l’allarme lanciato dalla educatrice pakistana Naghmana Naseem in un recente saggio (“Artificial Intelligence and Lifelong Learning”, nel volume The Robots Are Here, a cura di Rosemary Sage e Riccarda Matteucci, University of Buckingham Press, 2019).

Anche senza arrivare alle conseguenze nefaste che produrrebbero i robot che violassero le Tre Leggi della Robotica scritte da Isaac Asimov, già si registrano inconvenienti di minore gravità. Nel 2008 il quotidiano inglese “The Telegraph” ha citato un Rapporto secondo cui i navigatori satellitari hanno provocato in Gran Bretagna 300mila incidenti, a causa delle manovre azzardate dei guidatori che seguivano le indicazioni dei dispositivi.

Nel 2017 un altro quotidiano britannico, “The Guardian”, ha spiegato il fil rouge che lega il proprietario di una BMW rimasta in bilico su una scogliera dello Yorkshire, il turista giapponese che guidò direttamente nell’oceano per raggiungere un’isola australiana e l’anziana signora belga che per raggiungere Bruxelles si ritrovò a Zagabria.

Si è scoperto che la tipica attività cerebrale del simulare i diversi itinerari possibili per un viaggio è completamente assente quando una persona segue le indicazioni di un GPS anziché pianificare il percorso in modo indipendente. Per inciso si è scoperto che i tassisti londinesi, i quali non usano i navigatori, hanno gli ippocampi (le aree cerebrali responsabili della memoria e della navigazione spaziale) più sviluppati e attivi di quelli di una persona media.

Inoltre lo scorso mese di dicembre i passeggeri dei treni svizzeri, i quali in grande maggioranza si affidano a Google Maps per informarsi su arrivi e partenze, hanno subito diversi disguidi per il mancato aggiornamento della app sui nuovi orari pubblicati dall’Autorità federale svizzera.

Allora, per sopravvivere con successo, dobbiamo imparare a non farci guidare dalla tecnologia, staccando la spina al momento opportuno e sviluppando la flessibilità necessaria per cambiare, usando l’istinto e la ragione nel prendere decisioni, mantenendo i legami con la nostra comunità.

Questa educazione permanente è tanto più necessaria se si considera che, su cinque bambini i quali iniziano adesso la scuola, quattro svolgeranno un lavoro ancora inesistente e useranno tecnologie non ancora inventate.

Pilastro fondamentale di una educazione permanente è il cosiddetto “imparare ad imparare” che l’Unione europea, nella Raccomandazione 2006/962/CE relativa a competenze chiave per l’apprendimento permanente, ha definito come «l’abilità di perseverare nell’apprendimento, di organizzare il proprio apprendimento anche mediante una gestione efficace del tempo e delle informazioni». Aggiungendo che «questa competenza comprende la consapevolezza del proprio processo di apprendimento e dei propri bisogni, l’identificazione delle opportunità disponibili e la capacità di sormontare gli ostacoli per apprendere in modo efficace».

Un modello per imparare a imparare è proposto dall’insegnante e formatore Daryle Abrahams nel recente saggio “Learning to Learn: Preparing to Succeed in an AI World”, nel volume citato sopra. Secondo Abrahams l’insegnamento dovrebbe incrementare nei discenti la consapevolezza e la conoscenza di se stessi e di come lavorano e funzionano le singole persone, dato che ciascuno è diverso dall’altro.

Strumento fondamentale è la capacità di parlare correttamente, che deve essere insegnata da tutti i docenti e non solo da quelli di lettere. È quanto avviene nella School 21 di Londra, dove i bambini dai tre anni in su vengono incoraggiati a scambiarsi oralmente le loro idee sull’antica Grecia, la soluzione dei problemi e le tecniche della matematica, in base al principio che la conversazione aiuta il pensiero, e quindi anche l’apprendimento.

Ecco le loro linee guida: a) rispettare sempre le idee reciproche; b) essere preparati a cambiare opinione; c) arrivare a un accordo condiviso; d) chiarire, sfidare e riassumere le idee reciproche; e) sollecitare i contributi degli altri ponendo domande; f) dimostrare di avere ascoltato.

La Raccomandazione europea è stata recepita dal legislatore italiano, il quale ha stabilito (DM 139/2007, DM 9/2010) che la capacità di imparare debba essere acquisita al termine dell’istruzione decennale obbligatoria e possa venire amplificata nel secondo ciclo del sistema d’istruzione.

Tuttavia sono assai poche le scuole elementari italiane (e non solo) dove i docenti insegnano a imparare, dato che al massimo s’insegna a superare un esame. Diverso è invece il caso dei licei classici i cui diplomati, secondo una ricerca pubblicata dal “Corriere della Sera” il 1° novembre 2016, ottengono voti di laurea più alti dei colleghi provenienti da altri indirizzi di studi (105 di media, contro 103 dello scientifico e 99,7 del tecnico) e poi percorrono carriere brillanti anche nelle facoltà scientifiche.

(gv)

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