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    Il tempo che resta

    In quattro brevi saggi il celebre neurologo e psichiatra Oliver Sacks, scomparso lo scorso anno, condensa le sue riflessione sulla malattia e la morte, rendendo una preziosa testimonianza di consapevolezza e di coerenza.

    di Gian Piero Jacobelli

    Ci sono libri che si vorrebbe non avere letto, ma che non si potrebbe non leggere. Gratitudine di Oliver Sacks è uno di questi libri.

    Sacks, uno dei più suggestivi studiosi dei paradossi della mente, assai noto anche in Italia per le traduzioni di libri divenuti proverbiali come Risvegli o L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, tutti pubblicati per i tipi di Adelphi, è morto l’anno scorso ottantaduenne, a New York, dove si era trasferito negli anni Cinquanta da Londra.

    In questo ultimo libro, una raccolta di quattro saggi “sapienziali”, Sacks, il quale sapeva di essere ormai condannato da una metastasi incurabile, parla della vita, di quanto avesse amato la vita e di quanto ancora l’amasse, nonostante gli acciacchi dell’età. Di quante cose gli sembrasse di avere ancora da fare, soprattutto per conoscere altre lingue e altre culture (forse si sentiva costretto nella propria “inglesitudine”, come si dice ora che gli Inglesi l’hanno rivendicata con la Brexit: al femminile, secondo quanto precisa l’Accademia della Crusca).

    Persino negli ultimi mesi, si dissocia imperiosamente da quanto scriveva il filosofo David Hume nella sua autobiografia scritta di fronte alla morte impellente: «Non ho chiuso con la vita. Al contrario, mi sento intensamente vivo, e nel tempo che mi resta ho la volontà, e la speranza, di approfondire le mie amicizie, dire addio a coloro che amo, scrivere ancora, viaggiare se ne avrò la forza, raggiungere nuovi livelli di conoscenza e di comprensione» (pp. 27-28).

    Ma non è questo amore per la vita che mi ha colpito e che mi ha suggerito di condividere le poche parole conclusive di un anziano studioso, per altro assai criticato da neurologi e psichiatri ortodossi. A colpirmi è stata la coerenza che trapela da quelle poche parole intrise di nostalgia e fatalmente testamentarie. Una coerenza che non si limita ai comportamenti esteriori, alla riaffermazione finalmente senza remore della sua omosessualità o al recupero, se non convinto quanto meno affettuoso, delle vecchie tradizioni ebraiche della sua famiglia.

    In effetti, quando si sentono in punto di morte, anche gli studiosi più determinati e consequenziali scelgono, in qualche modo, di dedicarsi al “tempo che resta” per richiamare il titolo di un fondamentale saggio in cui Giorgio Agamben commenta la paolina Lettera ai Romani: di dedicarsi alle parole e alle cose importanti che erano state trascurate, o erano rimaste in ombra o, quanto meno, non avevano ricevuto l’attenzione che meritavano.

    Ricordo a questo proposito quanto mi impressionò che Jacob Taubes, il grande studioso del messianesimo ebraico, in uno uno dei suoi ultimi seminari a Heidelberg, nel 1987, ormai assai prossimo alla morte, avesse deciso, come lasciò scritto, «di non parlare della Prima Lettera ai Corinzi, ma di seguire un mio proposito più segreto, trattando la Lettera ai Romani», così passando dalla prospettiva apocalittica della fine del tempo alla prospettiva escatologica di una interpretazione, appunto, del “tempo che resta” come tempo della fine.

    Al contrario, Sacks non cambia argomento – il soggetto in permanente, ma dialettico confronto con se stesso e con il mondo – né cambia genere, quello del “raccontare storie”: «Rimasi affascinato dai miei pazienti, sviluppai per loro un interesse profondo e sentii che raccontare le loro storie – storie di situazioni pressoché sconosciute e quasi inimmaginabili per il grande pubblico, ma in effetti anche per molti medici – era una sorte di missione. Avevo scoperto la mia vocazione, e la seguii tenacemente, con determinazione, ricevendo ben pochi incoraggiamenti da parte dei miei colleghi». Così, «quasi senza esserne consapevole, divenni un narratore di storie proprio in un momento in cui, in medicina, la narrazione s’era quasi estinta» (pp. 48-49).

    Alla narrazione Sacks è restato fedele fino all’ultimo, anche relativamente a se stesso, il suo ultimo paziente. Perché narrare non può vincere la morte, ma certamente può aiutare a sopravvivere in quel particolare «contatto con il mondo», che «ha luogo tra scrittori e lettori» (p. 29).

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