Il rituale del maté condiviso è venuto meno nel paese sudamericano

Rafael Radi e Fernando Paganini, consiglieri del governo uruguaiano, descrivono come sono cambiate le usanze locali in risposta alla pandemia.

di Krithika Varagur

L’Uruguay ha rappresentato un esempio positivo nel Sud America devastato dal coronavirus, grazie a un’infrastruttura di ricerca altamente sviluppata, una tradizione di cure mediche a domicilio e un forte sistema sanitario pubblico. Due consulenti chiave del team di risposta alle pandemie del governo spiegano come hanno incrementato i loro test così velocemente e perché ora stanno incoraggiando le persone a uscire di più.

Questa storia fa parte di una serie di interviste con persone in prima linea nella risposta al coronavirus nei paesi di tutto il mondo. 

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Morti di covid al 27 agosto 2020. Fonte: Wikipedia

I primi casi in Uruguay sono stati confermati il 13 marzo e il gruppo di lavoro nazionale che abbiamo convocato di circa 60 persone si è incontrato con il presidente il 16 aprile. C’erano due gruppi principali, uno impegnato nella salute e l’altro nella scienza dei dati e nella modellazione.

Il numero di casi non si è mai accumulato fino al punto in cui abbiamo perso il controllo della situazione. Si potrebbe tracciare un quadro della nostra epidemia attraverso cinque o sei focolai distinti che abbiamo avuto, tutti con circa 50-60 casi, e tutti fondamentalmente isolati. L’epidemia più recente si è verificata in una provincia chiamata Treinta y Tres che si trova vicino al confine brasiliano, e si è trattato della seconda epidemia che abbiamo avuto di origine brasiliana. 

Rafael Radi e Fernando Paganini. Per gentile concessione di Leo Barizzoni

Quel confine è tecnicamente chiuso, ma ci sono alcune città che sono binazionali, quindi è difficile far rispettare le regole. In realtà, la strada principale in una di queste città è il confine. Quindi le persone la possono attraversare liberamente. Non si può stabilire alcun tipo di chiusura come vorremmo in quelle città.

In questo momento c’è una capacità ragionevolmente buona di test PCR, vale a dire il metodo standard per identificare un virus dal suo materiale genetico. In caso di epidemia, possiamo tracciare non solo i contatti immediati, ma anche quelli di secondo ordine. Abbiamo anche effettuato test casuali su personeche vivevano nelle zone ai limiti dei focolai. Per quanto riguarda il personale che effettua i test sul campo, ci siamo affidati a chi si occupa di malattie infettive al ministero della salute. 

Siamo abituati ad affrontare altri tipi di epidemie, come la dengue, e finora non abbiamo avuto un esplodere di casi tale da coinvolgere personale non formato. Ma non stiamo parlando di alta tecnologia, ma di telefonate e ancora telefonate. I nostri interventi sono partiti anche prima di agire in interazione con reti di ricerca in tutto il mondo e di condividere i reagenti con diverse università e centri all’estero, come l’Università di Hong Kong e l’Istituto Pasteur in Francia, per generare test di biologia molecolare nel nostro paese. I nostri primi test sono stati frutto di un accordo tra l’Università della Repubblica, un’affiliata locale dell’Istituto Pasteur, e il nostro governo centrale.

Un nostro punto di forza è stata la presenza di centri medici sul territorio. Possiamo dire alle persone di restare a casa e il medico andrà da loro. Per questa ragione i nostri cittadini non si sono recati in ospedale all’inizio della pandemia e non si è verificata la diffusione del virus. Chi effettuava i test andava direttamente a casa delle persone con tutta l’attrezzatura e faceva il campionamento. Questo è stato un fattore chiave, crediamo, per tenere sotto controllo l’epidemia nella fase iniziale.  

Penso che la paura abbia avuto un ruolo nel convincere le persone a seguire le linee guida di distanziamento sociale perché ci arrivano notizie principalmente dall’Italia e dalla Spagna e la maggior parte della nostra popolazione ha origini italiane o spagnole. Abbiamo ricevuto foto dall’Italia e dalla Spagna che erano davvero spaventose, e quando il governo ha indetto una conferenza stampa e ha comunicato: “Dovete stare a casa e applicare il distanziamento”, le persone si sono adeguate, anche se il nostro lockdown non era obbligatorio.

Oggi, anche se l’Uruguay ha una delle popolazioni più anziane del Sud America, pensiamo che sia necessario che le persone di una certa età possano conversare nei cortili o nei giardini, all’aria aperta. L’infezione si diffonde con difficoltà negli spazi aperti. Quindi ora stiamo promuovendo reti sociali che interagiscono in spazi aperti, per tempi brevi e mantenendo la distanza sociale, ma cercando di evitare l’isolamento perché ciò stava creando un grande stress fisico e mentale negli anziani.  

Un’ultima cosa: la nostra bevanda tradizionale popolare si chiama maté [una tisana ricca di caffeina], che di solito si passa da una persona all’altra. Questa tradizione sociale, che ci accompagna da centinaia di anni, è stata drasticamente ridotta. Adesso facciamo il maté monodose.

Immagine: Montevideo. Maria Elena Zuniga / Unsplash

(rp)

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