di Alessandro Ovi
La scienza e la tecnologia americane hanno tratto grandi benefici dalla immigrazione di talenti stranieri, qualunque fosse la loro appartenenza politica e religiosa. Dopo la caduta del muro di Berlino il fenomeno aveva assunto dimensioni globali e tutto il sistema produttivo americano aveva beneficiato di questa grande apertura. L’eccellenza dei candidati era il solo criterio per l’ammissione alle maggiori università e per la permanenza negli Stati Uniti, dopo la laurea, in posti di lavoro di alto livello.
Oggi, a due anni dall’11 settembre, è evidente un preoccupante cambiamento legato alla prevenzione del terrorismo. Il governo americano ha messo limiti molto severi agli studenti stranieri; quelli provenienti da una lista di 25 paesi, per lo più di religione musulmana, vengono schedati e minuziosamente investigati, qualunque sia la facoltà da frequentare, e sono comunque accettati in numero ridotto. Quelli che vorranno restare dopo la laurea dovranno essere rintracciabili dalle università e dalle autorità federali. L’accesso a programmi e materiali di ricerca considerati critici, dalle biotecnologie al software, è stato messo sotto controllo molto severo e, per chi viene dai paesi sospetti, sostanzialmente escluso.
Una situazione certo non invitante, che non tutti negli Stati Uniti condividono. Già nel dicembre 2002 i presidenti della National Academy of Sciences, della National Academy of Engineering e dell’Institute of Medicine avevano dichiarato che i vincoli posti agli studenti stranieri, in nome della sicurezza nazionale, stavano provocando serie conseguenze. Venivano denunciate le difficoltà di collaborazione nelle ricerche con istituti stranieri, l’impossibilità della ammissione di validi studenti e ricercatori stranieri, l’impoverimento della partecipazione alle conferenze internazionali.
Ma non si tratta solo di un problema del sistema della ricerca; è lo stesso concetto di società aperta e tollerante, grande patrimonio della nazione americana, ad andare in crisi. Autorevoli voci denunciano l’insorgere di un fenomeno simile al maccartismo degli anni Cinquanta. Daniel J. Kevles, storico della scienza della Università di Yale, ricorda quando il grande fisico Oppenheimer venne indagato, come tanti altri, per le idee di sinistra e per l’opposizione allo sviluppo della bomba all’idrogeno. Aggiunge che le restrizioni di oggi possono creare difficoltà alla scienza, in particolare alla biologia per il suo potenziale legame col bioterrorismo, ancora più gravi di quelle che il maccartismo ha creato alla fisica.
Nel maccartismo c’era una via di uscita, sia pure ipocrita e difficile da accettare, e cioè il ripudio di organizzazioni politiche o di comportamenti sospetti. Nella situazione attuale, invece, sono la nazionalità o addirittura l’etnia, che non possono certo essere cambiate, a rendere praticamente impossibile l’ammissione di certi candidati. Viene impoverito quel grande flusso di sentimenti di pace rappresentato dallo «scambio culturale» che da oltre cinquant’anni ha nel nome del senatore Fulbright il suo simbolo più alto.
Negli Stati Uniti tutti sono d’accordo che il terrorismo sia un orribile nemico da combattere duramente. Comincia però a farsi strada l’idea che il chiudere a una intera fetta di mondo l’accesso alle fonti più importanti della scienza e della cultura occidentali, l’impedire ai giovani migliori di conoscere e di farsi conoscere, interrompendo l’arricchimento reciproco, sia un modo di concedere, a chi sostiene il terrorismo, una prima vittoria. (a.o.)