Il rischio della complessità

Mercati finanziari e innovazione.
Intervista con Robert C. Merton, premio Nobel per l’economia.

di Nate Nickerson 

Robert C. Merton, attualmente docente della John and Natty McArthur University presso l’Harvard Business School, nel 1997 ha vinto il premio Nobel per l’economia per i suoi studi sul modello Black-Scholes volto a determinare il valore dei derivati azionari, studi che hanno portato al delinearsi di un nuovo profilo delle Borse a inizio anni 1970, e conseguentemente a una vera e propria rivoluzione nei mercati finanziari di tutto il mondo. Merton ha anche toccato con mano come può essere una moderna crisi di mercato: è stato infatti tra i fondatori di Long Term Capital Management, un fondo di investimento premiato da un enorme successo e subito dopo vessato da gravissime perdite a metà degli anni Novanta, che è divenuto un’icona dei limiti dell’ingegneria finanziaria. La crisi finanziaria attuale viene spesso imputata a un sistema talmente complesso da sfuggire alla comprensione anche degli addetti ai lavori. Abbiamo quindi chiesto a Merton cosa pensi della complessità, e se ritiene che i mercati ne abbiano abbastanza.

è giusto affermare che l’attuale sistema finanziario è troppo rischioso?

Lasciatemi fare un’analogia. Se ci si trova a guidare con il brutto tempo, si sarà portati a pensare che una macchina con quattro ruote sia più sicura di una con due. Ora supponiamo che si siano raccolti dati secondo cui, negli ultimi 15 anni, il numero di incidenti per chilometri percorsi è rimasto invariato. Le quattro ruote sono forse più sicure in proporzione? Tecnicamente no, perché il numero di incidenti è lo stesso. Allora dobbiamo concludere che le quattro ruote sono state uno spreco? Credo sappiate già la risposta, ma ve la dico comunque. La verità è che qualcosa è in grado di renderci incontrovertibilmente più sicuri solo se ci comportiamo esattamente come prima. è l’elemento cruciale da comprendere. La percentuale di rischio che ci assumiamo a livello individuale o collettivo non è una costante fisica data. Siamo noi a sceglierla.

Ma oggi il sistema finanziario che abbiamo a disposizione è migliore di quello che avevamo dieci anni fa?

Indubbiamente sì. Tanto per fare un esempio credo che il personale di una qualsiasi banca sia di gran lunga più competente sui vari mercati finanziari di quanto non fosse dieci anni fa. In generale, oltretutto, sappiamo calcolare e gestire meglio i rischi. E credo ci sia una maggiore trasparenza, in questo senso: una delle aree principalmente colpite dalla crisi attuale è il sistema del credito. I prestiti sono il prototipo del credito classico, e prima non venivano ritarati sulla base delle condizioni di mercato. Quindi quando subentrava una crisi rimanevano ambigui. Ce n’erano alcuni che rimanevano ad ammuffire per anni nelle banche, senza che nessuno se ne rendesse effettivamente conto, tranne che per prendere atto che valevano di meno. Quella non era trasparenza: era opacità. Oggi abbiamo un credito che dipende dal mercato. Ogni giorno, il mercato genera una stima di quanto effettivamente le istituzioni sono disposte a pagare per garantire credito a un numero compreso tra le 500 e le 700 aziende, e virtualmente a ogni nazione del mondo. Il prezzo viene rivalutato quotidianamente. è un miglioramento notevole in termini di trasparenza. Inoltre c’è una maggiore diversificazione a livello globale del rischio. Pensate alle ipoteche. Negli anni 1980, praticamente tutte le ipoteche venivano determinate da enti di risparmio. Oggi, esiste un mercato internazionale delle ipoteche. Anche in tempi duri come quelli odierni, il denaro dell’ipoteca si può utilizzare. Ovviamente questo non vuol dire che non ci siano problemi, ma in termini di tecnologia e operatività questi sono tutti plus.

Allora perché non siamo più al sicuro?

Dovrebbe piuttosto chiedermi cosa abbiamo ricavato da tutti questi miglioramenti. E la risposta è che siamo giunti a una complessità ancora maggiore. Abbiamo molti più strumenti. Sia aziende che individui sono più disposti a rischiare. Per tornare all’analogia della macchina, siamo più inclini a guidare più velocemente in virtù dei migliori strumenti e della maggiore trasparenza a nostra disposizione.

Con tutto questo la complessità cosa c’entra?

A volte il termine “complesso” viene usato come eufemismo per intendere “compreso meno”. A volte la gente dice che le cose si sono complicate, ma in realtà vuol dire che non le capisce.

E a suo avviso è vero che le cose si sono fatte più complesse?

Sì. Lasciate che vi faccia un esempio estremo. Per certi fondi di investimento altamente specializzati che si occupano di transazioni cosiddette ad alta frequenza, la location del server ha grandissima importanza.

Ovvero?

è una questione di velocità della luce. Oggi, si tende a noleggiare uno spazio in cui la gente possa collocare il proprio server in prossimità del server di scambio, in modo che il tempo di transazione si riduca proporzionalmente. Il numero di transazioni offerto in questo processo è di gran lunga maggiore del numero di transazioni effettivamente realizzate. Quindi il volume di attività è diversi ordini di grandezza maggiore rispetto al volume che effettivamente si stimerebbe. Il motivo per cui le sto dicendo tutto questo è che voglio spiegarle che nessuno in carne e ossa è in grado di osservare direttamente tali scambi e applicarvi dei criteri. Quindi cosa facciamo? Sviluppiamo programmi informatici per potenziare le nostre abilità umane, e cerchiamo di rilevare quel che sta succedendo, ma in sostanza sono i computer che alla fine effettuano la transazione. Può sembrare una sorta di disfunzione, ma è sempre meglio che se si settasse qualcosa su un computer e poi si scappasse alle Bahamas.

Quindi lei non crede che la complessità prodotta dai quanti costituisca un problema?

Non c’è dubbio che abbia degli aspetti disfunzionali. Qualsiasi cosa facciamo può avere degli effetti collaterali negativi. Il che non vuol dire che non valga la pena farlo. Ovviamente quando si ha a che fare con queste velocità di transazione possono esserci delle volte in cui, dal momento che a gestire tutto è un computer, se succede qualcosa di incomprensibile il programma continua comunque a cercare di effettuare la transazione, il che può avere degli effetti sui mercati. Ma questo non vuol dire che la situazione sia fuori controllo, o che la gente non sappia cosa sta facendo o che fosse meglio prima. Le cose sfuggivano al controllo anche senza computer.

Lei cosa pensa della tecnologia in generale per quanto riguarda il suo impatto sul funzionamento dei mercati?

è fondamentale. Chi opera nel settore informatico ha di che essere contento. Se qualcuno si chiede se un giorno, con i progressi della legge di Moore, arriveremo al punto in cui i computer saranno così veloci che non avremo bisogno di niente di più rapido, in termini finanziari ciò vorrà dire che non avremo altro che da aggiungere un’ulteriore variabile alle equazioni che intendiamo risolvere, avvicinandoci al limite delle potenzialità elaborative. Ma questo è solo un corollario. La tecnologia è un qualcosa di immenso. Se si considerano i costi del trasferimento di rischio attraverso il pianeta, quel che la tecnologia è riuscita a fare è straordinario. Questa è la nota positiva. La nota negativa è che tutto è più complesso e più veloce. Vuol dire che rischiamo più di prima? No.

Qual è il suo bilancio sulla crisi attuale?

Qualsiasi cosa le possa dire io o un altro è per forza di cose un’ipotesi, perché non è ancora stata effettuata una vera e propria analisi della patologia. Non abbiamo tutti i dati, e quindi qualsiasi teoria apparentemente valida che possiamo tirare fuori adesso potrebbe rivelarsi una spiegazione non accurata. E certamente io non ho accesso a tutte le informazioni su cui possono contare molti altri addetti ai lavori. Ma vorrei comunque sottolineare un paio di elementi strutturali. Oggi come in passato sentirà dire che l’innovazione e l’ingegneria finanziaria hanno generato un’eccessiva complessità, e per questo il sistema è uscito dai binari. A questo rispondo semplicemente che quando subentra un’innovazione di successo, l’infrastruttura atta a supportarla adeguatamente la segue automaticamente. Ma su 100 innovazioni, forse due avranno effettivamente successo. Quindi non è facile costruire un’infrastruttura completa per tutte. Le innovazioni precedono l’infrastruttura. Non è un problema di gente incompetente, avida o senza valore. Non si tratta di sistema di mercato o meno. Che le questioni che insorgono vengano affrontate da una regolamentazione esterna o da norme interne, bisogna prepararsi ad accettare che le innovazioni sono sempre accompagnate da una certa modularità. Se si fa troppo e si forza l’innovazione non va bene. Se non si fa niente, anche in quel caso si sbaglia. Bisogna trovare una via di mezzo. A volte non facciamo abbastanza, o lo sviluppo dell’innovazione è troppo rapido, ma il punto è che c’è un motivo per cui in genere le crisi finanziarie sono sempre collegate a qualcosa che viene percepito come novità e mutamento.

Quindi quando si sente dire che il mercato oggi è troppo complesso cosa bisogna rispondere?

Sì, i mercati sono più complessi oggi rispetto a cinque o dieci anni fa. In generale, ritengo che la complessità sia un riflesso dei progressi del sistema che hanno reso possibile una complessità maggiore con margini di rischio accettabili. I vantaggi possono derivare o dallo svolgere le funzioni del sistema finanziario in maniera più efficiente o dallo svolgerne di più. Detto ciò, la complessità può anche incrementare la gamma di rischi suscettibili di produrre una crisi in cui non si capisce bene cosa sta succedendo, perché ci si trova in un nuovo contesto in cui le strutture sono diverse da quelle di dieci anni fa. C’è una ragione psicologica per tutto ciò. Tendiamo a sentirci più a nostro agio quando facciamo qualcosa di familiare che quando facciamo qualcosa di nuovo, anche se i rischi sono gli stessi. Io non dico che non ci siano stati aspetti negativi, ma, se si analizza un arco temporale di una decina d’anni, ci si rende conto che nel complesso il sistema è strutturalmente migliore, anche se probabilmente c’è una disparità tra sviluppo delle infrastrutture e innovazione, che ci catapulta in una situazione di grande nervosismo e dispendio di risorse.

Nel 1973, quando ha perfezionato il modello Black-Scholes per la valutazione dei derivati azionari, aveva idea dell’incremento di complessità che avrebbe generato?

Non potevo aspettarmi una crescita del genere. Ma ci rendevamo conto, anche allora, del fatto che la sua applicabilità andava ben oltre il mercato azionario. Tra l’altro, quella ricerca è stata condotta negli anni 1970, quando l’intero mondo ha subito una rivoluzione. C’era stata la rottura di Bretton Woods (l’accordo internazionale siglato nel 1944 che aveva posto le basi del commercio internazionale, stabilendo la convertibilità della valuta in oro), quindi all’improvviso i cambi erano divenuti variabili; i tassi di interesse negli Stati Uniti si erano moltiplicati, raggiungendo soglie mai toccate dalla Guerra Civile in poi; si era impennata l’inflazione; tra il 1973 e la fine del 1974 il mercato azionario era diminuito del 50 per cento, il calo maggiore mai verificatosi dai tempi della Grande Depressione; e c’era la crisi petrolifera. L’intero panorama contribuiva a determinare l’urgenza di una condivisione dei rischi. Così è nato il germe del sistema attuale. è stato una risposta a un bisogno. Non si è trattato di capacità, ma di necessità. Si può avere tutta la tecnologia del mondo, tutti i modelli che si vogliono, ma se non c’è la percezione di un bisogno non c’è nulla che possa essere effettivamente adottato.

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