Si sa: quando si comincia a discutere troppo di qualcosa è perché quel qualcosa non convince fino in fondo, vaga ancora alla ricerca di un condiviso statuto ontologico ed etico. Come si diceva dell’araba fenice, che ci sia ognun lo dice, dove sia nessun lo sa: dove, ma anche cosa.
Cosa è la divulgazione e in particolare la divulgazione scientifica? Ma è chiaro, risponderebbero in molti: è qualcosa di difficile, spiegato a chi altrimenti non avrebbe la capacità di capirlo! Vero e falso allo stesso tempo: se non capisci cosa sia la teoria della relatività, non saranno a fartelo capire le solite metafore sui gemelli con tanto di orologio, uno che resta, l’altro che parte e che dopo tanti anni si ritrovano uno più vecchio dell’altro. Tra capire e illudersi di capire c’è una bella differenza, come insegna Piergiorgio Odifreddi in tante serie argomentazioni e da ultimo nelle sue sorridenti, anche se un poco irriverenti «Zichicche», in cui fa le pulci a uno dei più popolari divulgatori della scienza, Antonino Zichichi.
Cosa è la divulgazione scientifica, e dove? Sulle riviste specializzate o sui periodici a larga diffusione o sui quotidiani, che ormai dedicano alla scienza e alla tecnologia pagine intere, di cui per altro è difficile distinguere lo scopo e lo stile rispetto alle altrettante pagine dedicate alla moda o ai viaggi: vale a dire a quei mondi lontani che incuriosiscono, ma che non appartengono al grande pubblico se non come mercato: del giornale stesso o dei prodotti che il giornale veicola sotto la specie della scienza e della tecnologia.
Insomma nei conti della conoscenza, e di quella scientifica in particolare, c’è sempre qualcosa che non torna. Per dirla in breve, l’impressione è che la conoscenza scientifica sia una cosa e la conoscenza della scienza sia un’altra cosa. La conoscenza scientifica è e non può non essere qualcosa di esoterico, che procede grazie a un sistema concettuale e a un linguaggio che poco ha da spartire con il senso comune. La conoscenza della scienza, invece, concerne non gli aspetti e i movimenti intrinseci, ma quelli estrinseci della scienza. In altre parole, risponde alle cinque classiche W del giornalismo: What, Who ,When, Why, Where, cosa, chi, quando, perché, dove, alle quali oggi dovremmo aggiungerne una sesta, Wow, l’espressione che nel linguaggio giovanile esprime la sorpresa e quindi l’effetto.
Da quando, dopo la rivoluzione scientifica – ma per la verità anche prima, se sono vere le storie che si raccontano di Archimede e delle sue straordinarie invenzioni – la scienza è diventata parte integrante della vita quotidiana, progressivamente e sempre più velocemente moltiplicandone le opportunità e i rischi, a parlare di scienza non possono più essere soltanto gli scienziati, ma sono e devono essere tutti quelli che a vario titolo ne fruiscono o ne subiscono gli effetti: i governanti e i governati, i cittadini e gli amministratori della cosa pubblica.
Non a caso la riflessione su quella che si potrebbe chiamare non tanto «divulgazione scientifica», quanto «conoscenza della scienza», riemerge di tempo in tempo con comprensibile insistenza, anche se variamente connotata dalla speranza o dalla preoccupazione. L’equivoco resta in effetti il segno sotto il quale si svolgono molti dei dibattiti in questo campo. Sono stati pubblicati recentemente da Laterza gli interessanti interventi all’incontro di Sopoletoscienza dello scorso anno, tra cui in particolare quello di Bjorn Lomborg, che tante polemiche ha suscitato per le sue affermazioni in merito alle false priorità che condizionerebbero le ipoteche ecologiche sulla «salute del mondo». Ebbene, è evidente dalla stessa introduzione di Pino Donghi, benemerito segretario generale della Fondazione Sigma-Tau che organizza gli incontri spoletini, come gli interrogativi sulla scienza – quale rapporto la conoscenza scientifica intrattenga con la sedicente «verità – si confondano spesso e volentieri con gli interrogativi sul controllo della scienza, su chi e come debba decidere in merito agli orientamenti della ricerca e alle applicazioni dei suoi risultati. Si configura così un duplice e fatalmente ambiguo ruolo degli scienziati, chiamati da un lato a ricercare e dall’altro lato a «fornire alle agenzie di decisione, alla società civile, alla politica, un’interpretazione del dato scientifico tale da allargare la gamma delle alternative tra cui scegliere»: un po’ come se all’artista si chiedesse anche di interpretare le opere d’arte.
Poche settimane fa su questi stessi temi si è tenuto un importante convegno promosso dal Centro di Cultura Scientifica «Alessandro Volta», con la collaborazione dell’UGIS (Unione Giornalisti Scientifici Italiani). Ne sono emerse alcune interessanti considerazioni.
I rapporti tra scienza e informazione sono tanto stringenti quanto articolati: riguardano infatti intrinsecamente tutti gli aspetti del fare scientifico. Nell’ambito della scienza l’informazione svolge un ruolo «testimoniale», nel senso della certificazione dei suoi risultati; un ruolo «conoscitivo», nel senso del confronto con altri risultati; un ruolo «promozionale», nel senso della affermazione di uno specifico paradigma scientifico. Tuttavia, proprio in quanto ci si interroga sulla loro funzionalità, questi rapporti non sono così scontati come potrebbe sembrare. Richiedono quindi un ripensamento, se non una rifondazione.
La scienza di oggi non è più quella di una volta: nel suo complesso è diventata «grande scienza» e se, da un lato, ha accresciuto il potere di influenzare la vita individuale e collettiva, dall’altro lato ha bisogno di trarre dal mondo esterno i mezzi per la propria implementazione. La contraddizione è palese: la scienza elabora modelli che risultano sempre più lontani dall’esperienza comune, sempre più difficili da capire persino per gli esperti specializzati in diversi campi della ricerca; ma l’esperienza comune sempre più variamente condiziona e persino strumentalizza la scienza. Caratteristica di questo disagio è proprio l’ambigua espressione di «politica scientifica»: che significa sia una politica «per» la scienza, volta ad assicurarne lo sviluppo, sia una politica «della» scienza, volta a conseguire obiettivi non scientifici, per esempio economici o militari. Cosa fare per colmare questo iato, in cui si celano disfunzioni e persino regressioni irrazionalistiche, dovute proprio all’alone di mistero di cui la scienza finisce per venire avvolta, nonostante che per definizione il mistero nel pensiero scientifico non possa esistere?
Molti anni fa Robert Jungk, giornalista americano di origine austriaca, autore del celebre saggio Il futuro è già cominciato, suggerì una curiosa e originale metafora per descrivere i problemi della cosiddetta divulgazione scientifica: la circolazione delle informazioni provenienti dai laboratori può venire paragonata alla circolazione delle automobili in un grande centro urbano, dove il traffico va regolato secondo criteri di competenza e di pertinenza, separandolo, incanalandolo, deviandolo. Riprendendo e attualizzando quella metafora, si può fare riferimento alla molteplicità dei canali e dei mezzi di comunicazione, ciascuno con le proprie caratteristiche linguistiche, ma tutti insieme coinvolti nella realizzazione della rete dell’informazione scientifica, in cui il traffico intellettuale può orientarsi e integrarsi, nel suo complesso conferendo alla scienza quella immagine stereoscopica che consente di inquadrarla in un sistema di convivenza. Ovviamente il «codice della strada» riguarda anche gli operatori della scienza, che sembrano ancora poco sensibili all’importanza dell’informazione, poco disposti a confrontarsi con gli altri protagonisti della scena sociale, se non in una chiave lobbistica. Così il confine tra «divulgazione» e «volgarizzazione» si fa sempre più esile e precario.
In sintesi, è necessario passare dalla «informazione» scientifica alla «comunicazione» scientifica, dove la prima segue il tradizionale modello telegrafico che va dall’emittente al ricevente senza la creazione di un discorso comune, mentre la seconda esprime la complessità della collocazione sociale della scienza, dei suoi presupposti e delle sue conseguenze. Un problema di formazione, senza dubbio, che richiede una costante mediazione tra i confini disciplinari e, soprattutto, una visione prospettica, perché il racconto della scienza non si concluda alle soglie del laboratorio, ma nel contesto sociale che ne rappresenta la condizione di possibilità.
Se è giusto rispettare l’autonomia della logica scientifica, che non può scendere a compromessi pena la sua sostanziale neutralizzazione, l’etica della scienza non è diversa da ogni altra etica, il cui imperativo categorico è quello di operare in modo da valorizzare la compatibilità tra le proprie azioni e quelle degli altri, anche per evitare reazioni che possano impedire di continuare a operare. Questo è lo spirito dell’importante Festival della Scienza che si sta aprendo a Genova – se ne dà notizia in basso – e di cui colpiscono favorevolmente i tre assunti programmatici: un «pensare nuovo», dal momento che la scienza deve fare proseliti per continuare a operare, soprattutto nel nostro paese; un «pensare semplice», non tanto perché la scienza debba farsi capire, quanto nel senso del «racconto della scienza», dell’inquadramento narrativo di una scienza che entra nella vita quotidiana come un esercizio di condizioni e conseguenze, non come una scoperta di verità nascoste; un «pensare complesso», che concerne l’incrocio di ambiti e di discipline, la definizione di percorsi interdisciplinari che costituiscono il presupposto perché la scienza, prima ancora di dialogare con il mondo esterno, impari davvero a dialogare con se stessa.